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Timor Dissolvi

 

Diceva un grand'uomo spinto da viva fede, uno dei nostri padri, tempo orsono: 

Coarctor autem e duobus: desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo, multo magis melius: permanere autem in carne, necessarium propter vos...” [1]

Non fu sua esclusiva l'uso di un simile linguaggio: è difatti entrato nell'uso corrente, attraverso l'applicazione che ne fecero i grandi mistici cristiani, il termine cupio dissolvi. Tradurlo è difficile, seppure non impossibile. Con quel bel modo di giocare con le parole proprio del latino, questa espressione infatti rimanda ad un desiderio vivo e profondo di dissolversi, di vedersi disciolto come sale in un bicchiere d'acqua ed annullato dei propri personali desideri e persino della propria vita.

I "Nottambuli" di Edward Hopper: la solitudine in una grande città

Nell'antichità, un'espressione simile non poteva che essere associata alla disperazione di un vinto; quest'affermazione avrebbe accompagnato senza dubbio i lamenti di un uomo sconfitto, senza più forza per combattere e senza più speranza per ritentare. L'ultima volontà del sopraffatto appare allora un atto di vergogna simile al desiderio di essere distrutto lentamente, senza fretta, annullato nella propria incapacità.

Ben diversa accezione acquisisce questa espressione in ambito cristiano, e particolarmente con i grandi santi e mistici della nostra fede. La citazione in apertura -dalla quale senza dubbio il cupio dissolvi ha ricevuto grande popolarità e diffusione- appartiene infatti allo stesso San Paolo, l'apostolo delle genti, che tutto potremmo considerare ma non certo uno sconfitto.

Egli fu vinto, certo, ma vinto da Cristo del quale seppe riconoscere la signoria e per il quale giunse a dire di preferire d'esser “sciolto dal corpo” per sperimentare la vita dei redenti piuttosto che rimanere in vita, a compiere il suo magistero di evangelizzazione. Paolo certo scelse il secondo, mosso da viva carità e dal desiderio di far conoscere a quanti più uomini la lieta novella del Vangelo; certo neppure dimenticò mai la propria destinazione finale, tanto preziosa ed ambita, per la quale potè infine sospirare: 

Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione...”

Desiderio di vedersi dissolvere per Cristo ed in Cristo, questo era ed è il significato più profondo dell'anelito paolino e caro alla mistica cristiana: il grido dell'arreso, sì, ma dell'arreso innanzi al Mistero fattosi carne; il gemito del vinto, certo, ma del vinto dalla potenza di Dio. Innanzi a queste la nostra vita perde ogni significato e valore, tanta la sua piccolezza ma, innanzi a tali prodigi d'amore divino verso il nulla umano, questa si eleva ancor più in tutta la sua fulgida dignità.

Il più grande desiderio dei santi fu proprio questo: abbandonare le spoglie mortali, varcare quella soglia tanto attesa, vedere il giorno caro e lasciarsi alle spalle le insipienze del mondo. Annullare sé stessi per nascere in Cristo, morire nella carne per nascere dalla sorgente della vita stessa.

E non dovremmo ritenere certe affermazioni consone solo ad una certa novellistica monastica e conventuale, quasi che non ci riguardi: ogni cristiano è chiamato a farsi unico assieme a Cristo, a fondere l'intero e più profondo proprio essere con l'Essere sommo e perfetto.

A tal proposito, già nel secondo secolo, scriveva un'anonimo autore nell'Epistola a Diogneto:

I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere...Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile...Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita [...]”

Se ne deduce come l'annichilire sé stessi persista e sussista unicamente in virtù -e quale mezzo- di far posto a Dio e, così avendo imparato a morire, vivere per davvero, accrescersi più di quanto mai si riesca a fare senza questa “morte dell'io”, tanto autentica quanto indispensabile per la vera ascesi. In questo procedimento ormai non sussiste più da tempo il timor dissolvi, la paura della morte: essa viene vinta da un costante processo di maturazione spirituale e fede.

Eppure, proprio del timor dissolvi vorrei parlare: un'espressione artificiale, un autentico contrario della cupio, del desiderio d'esser dissolto.

Il timore della dissoluzione è la paura propria ad una società che teme la morte perchè ha perso la strada, il senso della vita stessa. Non sussiste infatti paura della morte nell'uomo che ritiene la morte come la porta attraverso la quale è necessario passare per ritrovare Dio.

Paradossalmente, la paura della morte è ancora più presente -seppure mascherata, repressa, zittita- nella società odierna, dominata dall'ateismo nichilista e materialista, piuttosto che nelle società antiche. Laddove un tempo -ed anche oggi, per noi- la morte non era che una soglia, oggi è semplicemente la fine. Un muro inesorabile, alto ed insidioso, insuperabile, contro il quale rovinano e si disgregano i nostri corpi, sospinti dalle mareggiate del tempo, verso la dissoluzione finale.

Una dissoluzione senza via d'uscita, senza senso, fine a sé stessa. Una dissoluzione non necessaria, non utile ma solo che, per uno strano caso, si verifica. L'uomo è ridotto a puro detrito sulla spiaggia dell'Essere che, essendo stato per un momento, subito viene richiamato dal non-essere.

Appaiono allora anacronistiche (!) per la modernità le considerazioni di San Paolo che non solo non fugge, bensì cerca di propria volontà l'unione con Dio, anche quando questa significa dover passare attraverso la morte. Oggi, la morte si fugge e, paradossalmente, la morte ha in pegno la stessa società priva di senso, valori, fede. Quel limite invalicabile che essa è non solo si teme, ma anche si evita di nominarlo come per allontanarne la noi l'ombra spettrale: nulla di più lontano dalla spiritualità cristiana e dall'esempio dei martiri, che spesso seppero trovare nella morte una grande consolazione, uno scorcio al Mistero che li attendeva.

E così, se in contesto pagano il cupio dissolvi era proprio dell'eroe sconfitto e schiantato dal fato avverso e in quello cristiano era indice d'impazienza di martiri e santi “arresi” a Dio in attesa della vita eterna, oggi registriamo una regressione di significato, un involuzione: “desidero esser dissolto” non è più il lamento d'eroi o santi o martiri, ma dell'uomo del moderno evo, tout court. Se l'eroe antico, seppur in contesto pagano, invocava la propria distruzione, lo faceva tenendo bene a mente gli ideali che non aveva saputo incarnare, l'onore che non aveva saputo conservare o i cari, la patria, che non era stato in grado di difendere. L'uomo moderno, né eroe né vincente, perde contro sé stesso e la visione nichilista che abbraccia, la visione della disperazione. Perde a causa propria. Così facendo, invoca la distruzione del proprio essere nella banalità, nell'odio verso la vita che crede priva di senso ed il dolore, nell'insipienza del nulla.

Morire, invocare la morte, diventa causa e fine di sé stesso.

E se il santo elevava in cielo questo controverso grido: “desidero esser dissolto!”, certo lo diceva per poi aggiungere: “perchè il mio essere, libero di questo fardello mortale, possa congiungersi a Te, o Dio, e possa in eterno lodarTi”. Questo, si direbbe, il contrario d'oggi. Il moderno eroe laico ha imparato che non c'è nessuno, “al di là”: appare allora inutile qualunque invocazione, qualunque preghiera, prece, supplica. Egli si appiglia allora ai valori che guidarono la sua vita? Può farlo, ma ben ricordando che una coerente visione nichilista non ammette l'esistenza di valori eterni, oggettivi. In poche parole, per questo novello eroe moderno, non resta che disperarsi ed invocare, appunto, una dissoluzione che possa dargli il silenzio dei sensi, del pensiero, della coscienza.

Se il salto del martire era un coraggioso salto nel senso, nella vita, in Dio, oggi il salto del moderno è il salto nel nulla, nel mistero (totalmente materiale e non trascendente) dell'esistenza.

Come sarebbe infatti lottare per una vita intera per valori ritenuti umani e giusti, per poi, nei momenti di lucidità, realizzare che non sono eterni, che tra una, due generazioni verranno uomini che chiameranno giusto ciò che per me era sbagliato?

Laddove l'eroe antico si faceva nulla, si annichiliva innanzi ai valori che non aveva saputo servire o al fato ostile e laddove il santo si annullava per aprirsi a Dio, l'uomo moderno si annulla per il semplice fatto di annullarsi. Egli concepisce come implausibile l'idea di Dio, logicamente conseguente l'impossibilità di leggi morali eterne e di uno scopo ed un senso propri alla vita.

D'altrode è proprio questo il senso del nichilismo: “per nichilismo s’intende – specie oggi, in un’epoca in cui esso pare contrassegnare l’intera civiltà occidentale e talora essere il suo destino – [...]: un pensiero che nega l’esistenza di qualsiasi valore e del principio stesso di valore, proclamando che la vita non si fonda su nulla e non ha senso cercarne il significato.” [3]

Timor dissolvi allora -il timore della morte, del vuoto, del nulla- è, paradossalmente e come detto, il prodotto di una società materialistica fondata principalmente sull'accettata (spesso fin troppo a cuor leggero, direi incoscientemente) idea che l'universo sia indifferente all'uomo, che sia privo di valori morali oggettivi e della stessa presenza di Dio.

E, effettivamente, di fede moderna si tratta: non una risposta risolutiva alle grandi domande della vita -sul senso, su Dio, sulla morale...- ma una grande domanda, un punto interrogativo, il dubbio di una società che ha rigettato Dio ma alla quale, quando guarda al futuro, è giustamente precluso qualunque disegno intelligibile e sensato (prerogative del mondo concepito e governato dall'Intelligenza di Dio) per l'umanità così svestita, nuda e miserevole.

C'è poi chi sostiene, tentando di convivere con questa fede e le sue conseguenze:

“Nichilismo è sentire che al mondo non c’è nulla per cui valga la pena essere pessimisti.” [4]

E come metterlo in dubbio? 

Certo è vero perchè non c'è neppure nulla per cui essere ottimisti. In sostanza, ogni scelta è indifferente. Ogni emozione, una vacua voce persa nella vastità del nulla. Nessuno risponde, tanto vale non chiedere. Ma l'uomo, non è forse nato per chiedere? Non conserva forse in sé quei semi insopprimibili di una natura di esploratore, costantemente sulle tracce della verità? Che siano lecita convinzione o fatua leggerezza ad aver mosso le considerazioni dei nichilisti, certo entrambe non sono metro di validità tale da imporre all'uomo ed al suo spirito, quasi con un solenne e brusco divieto, la ricerca del vero, del senso, dell'essere in quanto esistente; neppure sono licenza d'osservare dall'alto in basso quei pochi che han mantenuto la fede e la ricerca, quali tardi epigoni restii ad abbandonare convinzioni ormai accertate per errate.

La Redazione


[1] San Paolo nella Lettera ai Filippesi, 1, 23-24: “Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne.”

[2] 2 Timoteo 4; 7-9

[3] Claudio Magris

[4] Giovanni Soriano

Il Rasoio di Occam e l'abuso anti-teista

Frequentemente, a sostegno della visione atea del mondo, viene usato il cosidetto “rasoio si Occam”. Questo strumento logico, codificato nella sua formulazione originaria dal teologo inglese Guglielmo da Ockham, durante il medioevo, fa propendere chi lo usa a reputare maggiormente verace una conclusione che riesca a spiegare una teoria nel modo più semplice ed economico possibile, ossia introducendo il minor numero possibile di elementi volti a spiegare ciò che accade.

Così, se il mondo può esser compreso in una mera prospettiva materialista e naturalista, allora l'idea di Dio appare dispendiosa da formulare: è più probabile che il mondo esista e sussista senza bisogno della sua spinta esterna, non verificabile.

Diversi sono i punti critici di questa obiezione, ben evidenziati nell'articolo che vi propongo qui sotto.

Il rasoio di Occam pare aver perso il suo filo, sopratutto al giorno d'oggi: se nel passato la teoria più semplice era ritenuta anche la più veritiera, così non può più essere sostenuto oggigiorno. Con l'evolversi delle scienze ed il comparire di questioni complesse, la banalizzazione non sembra più aiutare e la semplificazione risulta spesso impossibile: numerose le volte, poi, in cui la teoria più corretta e verificata risulta essere proprio quella meno semplice.

Impossibile, poi, credere di poter “tagliare via” Dio dall'indagine del mondo sulla base delle poche conoscenze scientifiche che possediamo, malgrado siano più di quelle del passato: nell'ottocento positivista la fisica sembrava aver concluso il suo viaggio, di essere in grado di spiegare l'universo sulla base di soli funzionamenti deterministici; con l'avvento di Maxwell, Einstein e molti altri questa visione si incrinò.

Impossibile infine rifiutare un'ipotesi di cui non conosciamo la natura più intrinseca, qual'è Dio stesso: tuttavia, persiste una sbagliata concezione di questo strumento, piegato spesso ad un vero e proprio abuso, dove sembra più facile chiamare in causa il Rasoio piuttosto che applicarlo per davvero.

Buona lettura!

                                                 La Redazione

Il frate francescano Guglielmo da Ockham

I nostri avversari che professano idee materialistiche usano opporre alle nostre argomentazioni il cosiddetto Rasoio di Occam, uno strumento logico escogitato dal teologo inglese Guglielmo da Ockham, 1288-1349), dell’Ordine di Francesco d’Assisi. Questo principio logico può essere formulato in diversi modi, che elenchiamo nel seguito:

1) A parità di fattori, la spiegazione più semplice è da preferire
2) Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (Gli elementi non devono essere moltiplicati più del necessario)
3) Pluralitas non est ponenda sine necessitate (La pluralità non deve essere considerata se non è necessaria)
4) Frustra fit per multa quod fieri potest per pauciora (È inutile fare con più cose ciò che può essere fatto con meno cose)

In altre parole, se di un evento esistono diverse spiegazioni possibili, non deve essere scelta quella più più ingenua o che affiora alla mente in modo spontaneo, bensì quella più ragionevolmente vera e che non richiede inutili complicazioni tramite aggiunta di altri elementi causali. Si tratta di una forma di economia di pensiero: se per spiegare un fenomeno non occorre postulare un determinato ente, è ragionevole non postularlo, essendo logico scegliere la soluzione più plausibile e semplice. Ad esempio, se si può descrivere il meccanismo di formazione dei temporali a partire dalle caratteristiche delle nubi e dell’atmosfera, questo è preferibile all’idea di ammettere l’esistenza del dio Thor dalla barba rossa che scaglia folgori con un martello chiamato Mjöllnir.

Il francescano inglese ha sistemato logicamente qualcosa che era già noto al pensiero scientifico del Medioevo, impostando la sua critica sulla concezione volontarista della Creazione. In contrasto con Tommaso d’Aquino, che riteneva il mondo creato da Dio sulla base di volontà e intelletto, Guglielmo di Ockham credeva che la Creazione fosse unicamente un atto di volontà. Per questo motivo egli ha enunciato il Rasoio, per eliminare i concetti relativi a regole e leggi naturali, come ad esempio la Sostanza e gli Universali.

I molti usi illegittimi del Rasoio di Occam

Naturalmente, Frate Guglielmo da Ockham non sarebbe stato affatto contento dell’uso che i moderni fanno del suo strumento logico. Infatti esso viene applicato in modo assolutamente dissennato, senza nemmeno operare un controllo sull’effettiva necessità della sua applicazione. Esso viene utilizzato come metodo per risolvere qualsiasi questione filosofica ritenuta insolubile. Esiste Dio? Non esiste, dicono i materialisti, perché non serve: il Rasoio di Occam dimostra che non è necessaria la sua esistenza per spiegare il mondo. Esiste l’anima immortale? Esiste lo Spirito? Non esistono queste cose, dicono i materialisti, perché sono del tutto inutili: il Rasoio di Occam dimostra che un corpo funziona bene anche senza qualcosa di metafisico che lo faccia muovere.

Ad essere criticabile è proprio l’uso disinvolto del Rasoio di Occam, che dimostra la pochezza intellettuale di chi lo compie. Infatti di questi tempi esso è interpretato falsamente ed enunciato in questo modo:

1) La spiegazione più semplice è da preferire
2) Entia non sunt multiplicanda (Gli elementi non devono essere moltiplicati)
3) Pluralitas non est ponenda (La pluralità non deve essere considerata)
4) Frustra fit per multa aliquid (È inutile fare qualsiasi cosa con più cose)

Come si può osservare, è stato tralasciato qualcosa di fondamentale. Per quanto Frate Guglielmo sia stato chiaro ed abbia usato un linguaggio comprensibile, questo è ciò che di lui è arrivato ai contemporanei. Non viene compiuta quindi alcuna verifica sull’effettiva necessità di applicazione del Rasoio. Se si ignora il grado di complessità dell’argomento che si sta trattando, si corre il concreto rischio di eliminare informazioni cruciali.

Alcuni esempi dallo studio delle lingue

Nella lingua olandese esistono due interessanti parole: “Schande”, che significa “vergogna”, e “Schandaal”, che significa “scandalo”. Applicando il Rasoio di Occam senza disporre di altre informazioni, è naturale dedurre che “Schandaal” sia un derivato di “Schande”, che le due parole siano cioè imparentate tra loro. Questo non è tuttavia vero. Mentre “Schande” è un termine di origine germanica, “Schandaal” è derivato dal Greco del Nuovo Testamento “skandalon”, che significa “pietra d’inciampo”. Questo è un esempio di uso errato del Rasoio di Occam.

Nella lingua tedesca la parola “arm” significa “povero”. Così si dice “Dieser Mensch ist arm”, che significa “Quest’uomo è povero”. Orbene, in alcuni dialetti della stessa lingua esiste anche la parola “Armosen”, che significa “elemosina”, e che nell’idioma standard suona invece “Almosen”. Stando ai materialisti, se si considerasse soltanto l’ambito di un dialetto che ha “Armosen”, chi oserebbe negare che le due parole abbiano la stessa origine, visto che indicano entrambe qualcosa che ha a che fare con il concetto di povertà? Semplicità vorrebbe che questo “Armosen” sia un figlio naturale di “arm”, così come “Spirituosen”, che significa “alcolici” è un figlio naturale di “Spirit”, che significa “alcool”. Stesso suffisso, stessa procedura di derivazione: non possono esserci dubbi. Invece non è così, come già risulta evidente considerando la variante “Almosen”. È dimostrato che queste parole sono derivazioni del Greco del Nuovo Testamento “eleēmosynē”, che significa “questua”, e che deriva dal verbo ellenico “eleéō”, che significa “ho compassione”.

Esiste in Messico una città che è chiamata Cuernavaca. Nulla di più naturale che vedervi una derivazione dalle parole spagnole “cuerno”, ossia “corno”, e “vaca”, ossia “vacca”, entrambe di chiara origine romanza e derivate dal Latino “cornu” e “vacca” rispettivamente. Per chi considera la lingua spagnola parlata in Messico come un sistema isolato, questa etimologia sarà ineccepibile. Invece il toponimo deriva dal Nahuatl “Cuauhnahuac”, che significa “Vicino agli Alberi”: nella lingua parlata dagli Aztechi “cuahuitl” significa “legno” e “albero”, mentre “nahuac” è un suffisso che indica il concetto di vicinanza. Una persona che ignora la lingua Nahuatl, applicando il Rasoio di Occam in modo improprio e superficiale, arriva senza dubbio a proferire il falso.

Esite una tradizione radicata quanto falsa che attribuisce ai Rom e ai Sinti origini egiziane. Per questo tali genti hanno ricevuto il nome di Gitani, ossia Egiziani. Orbene, il termine che essi usano per designare l’uomo della propria etnia è “rom”. Sapendo che nella lingua Copta, che è erede dell’Antico Egizio, uomo si dice “rōme”, un osservatore superficiale potrebbe essere tentato di ritenere la consonanza significativa, e applicando il Rasoio di Occam ritenere inutile ogni ulteriore discussione. Ma noi sappiamo, conoscendo qualcosa di più del lessico della lingua dei Rom e di quella Copta, che il modo simile di indicare l’uomo è frutto di mera coincidenza. Basti allo scopo un breve elenco. In Romani “pani” significa “acqua”, che in Copto è “mou”. In Romani “iag” significa “fuoco”, che in Copto è “krōm”. In Romani “phu” significa “terra”, che in Copto è “to”. In Romani “kham” significa “sole”, che in Copto è “rē”. In Romani “chhon” significa “luna”, che in Copto è “iooh”. In Romani “kasht” significa “legno”, che in Copto è “she”. In Romani “phral” significa “fratello”, che in Copto è “son”. In Romani “rat” significa “sangue”, che in Copto è “snof”. In Romani “me” significa “io”, che in Copto è “anok”. In Romani “oi” significa “egli” o “ella”, mentre in Copto “egli” è “ntof” e “ella” è “ntos”. È diversa a fonetica, è diversa la grammatica, sono diversi i vocaboli, i pronomi, i numerali: non esiste nulla in comune.

Un esempio dallo studio della matematica superiore

Esistono rapporti tra numeri che non danno esito definito, e per questo sono conosciuti col nome di “forme di indecisione”. Così ad esempio, se si divide una quantità tendente a zero per un’altra quantità tendente essa stessa a zero, non si ottiene alcun risultato determinabile eseguendo il suo limite. Allo stesso modo se si divide una quantità tendente a infinito per un’altra quantità tendente essa stessa a infinito.

Esiste uno strumento matematico noto come Teorema di De l’Hôpital, che permette in alcuni casi di risolvere queste forme di indecisione. Verificate certe condizioni sulle funzioni in questione, quando hanno forma di quoziente, detto teorema stabilisce che se si applica una procedura chiamata “derivazione” al numeratore e al denominatore del quoziente analizzato, si ottiene un numero che è eguale al quoziente del numeratore e del denominatore di partenza. Così, se con usando il Teorema di De l’Hôpital si ottiene un numero finito, ecco che la forma di indecisione può dirsi risolta.

Per queste sue caratteristiche in grado di trarre dall’imbarazzo il matematico in certe occasioni, ecco che il Teorema di De l’Hôpital ha acquisito fama immeritata ed è diventato tra gli studenti di Fisica e Matematica una specie di bacchetta magica, una panacea a loro detta in grado di risolvere ogni problema. Dall’uso si è giunti presto all’abuso: ecco studenti pronti ad utilizzare De l’Hôpital per risolvere i limiti di qualsiasi quoziente di funzioni, anche dove non esiste forma di indecisione – ed è dimostrato che in simili casi il numero fornito applicando tale teorema non è necessariamente quello corretto.

Riporto qui il caso di un professore ingegnoso che metteva alla prova gli studenti spingendoli ad usare al posto di De l’Hôpital uno strumento in apparenza difficile ma sicuro: lo sviluppo di Taylor di una funzione. Egli insegnava ad usare la testa, ma era visto come una specie di carnefice dagli studenti, che si sentivano defraudati della sicurezza offerta dal Dogma di De l’Hôpital. Il professore dava come problemi da risolvere quozienti di funzioni in cui usando De l’Hôpital si passava con gran fatica da una forma di indecisione ad un’altra, senza ottenere nulla. Così, andando in marasma, i candidati sbagliavano sempre nell’appicare gli sviluppi di Taylor, decomponendo le funzioni del problema in un numero troppo basso di addendi. Trascurando addendi importanti, in grado di svolgere una funzione determinante sull’approssimazione, ecco che fallivano miseramente, ottenendo numeri errati. Uno studente introverso, foruncoloso e schernito come “nerd”, ha capito – solo tra tutti – che se si scomponevano le funzioni in un gran numero di addendi, superiore ad esempio a dieci, non si sbagliava mai: si otteneva sempre il corretto limite, il numero richiesto.

Ecco come l’applicazione di un teorema in modo troppo disinvolto può traviare e condurre lontano dal Vero. 

Sono da preferire le teorie che spiegano più fatti

1) Immaginiamo di avere due teorie X e Y, in grado di spiegare quanto avviene nei due domìni A e B. La teoria X spiega ciò che avviene in A, la teoria Y ciò che avviene in B. La teoria X è più semplice della teoria Y, ma il dominio A è più piccolo del dominio B ed è in esso contenuto. Ossia, la teoria Y, più complessa di X, non solo spiega tutto ciò che ricade nel dominio A, ma anche altri fenomeni che X non può spiegare, perché B contiene A. La teoria Y, per quanto più complessa di X, deve essere preferita, perché rende conto di quanto accade nel dominio più vasto. Per poter applicare il Rasoio di Occam si deve avere parità di fattori.

2) Immaginiamo di avere n teorie a, b, c, …, che spiegano quanto avviene nei domini A, B, C,… Queste teorie sono, presa una per una, estremamente semplici, ma non hanno nulla in comune tra loro, in quanto pretendono di spiegare fatti diversi tra loro ricorrendo a cause dissimili. Immaginiamo ora di avere una teoria X, complessa ma capace di spiegare tutto ciò che avviene nei domini A, B, C, …, riducendo ogni fenomeno ivi studiato ad un’unica causa. Ecco che la teoria X, per quanto sia più complessa delle teorie a, b, c,…, deve essere ad esse preferita.

Non è possibile comprendere un sistema dall'interno

Hanno forse i materialisti una visuale privilegiata dell’Universo fisico? Guardano forse essi il mondo dall’esterno? No di certo. Usano forse essi parole di un altro Universo per spiegare le miserie di questo? No di certo. Non possono farlo. Quando si chiede loro cosa significhi “vedere”, essi possono soltanto rispondere che “vedere” equivale a “percepire la realtà circostante servendosi degli occhi, dei nervi ottici e dell’area del cervello preposta al senso della vista”. Spiegano cioè la “zuppa” definendola “pan bagnato”. La realtà del fenomeno che si chiede loro di descrivere non è minimamente spiegata. Possono essi spiegarla davvero ricorrendo a molte parole dove nella vita quotidiana se ne usa una sola? No di certo: la loro spiegazione fa riferimento – come ogni spiegazione concepibile – a mattoni fondamentali che sfuggono a ogni ulteriore analisi. Atomi di pensiero, dove la parola “atomo” deve essere intesa nella sua etimologia greca che rimanda al concetto di “indivisibile”.

Non è possibile dirimere una questione di cui si ignorano i fattori

Non è affatto lecito utilizzare il Rasoio di Occam allo scopo di risolvere questioni a cui la Scienza dei materialisti non è stata in grado di trovare una risposta. Il fatto che la risposta non sia stata trovata applicando il Metodo Scientifico significa che non sono state trovate prove irrefutabili capaci di decidere la questione. Così si deve ammettere che non si conoscono i fattori, e che pertanto il Rasoio non può essere applicato. Se non si è in grado di dare una definizione di ‘autocoscienza’, non si può pretendere che questa sia generata dal cervello e dalla sua neurochimica. Ora per quanto i materialisti si sforzino, non esiste nessuno tra loro che sia capace di definire l’oggetto delle questioni insolubili che affliggono la filosofia. Cos’è l’esistenza? Non essendo possibile dare una definizione dell’esistenza stando all’interno di ciò che esiste in questo universo, come potrà essere stabilito che non è necessaria una causa per l’universo stesso? Cos’è la percezione? Ogni possibile risposta si trova per necessità nell’ambito stesso della percezione. Pertanto, tutto ciò che i materialisti possono affermare a questo proposito pertiene alla sfera del metalinguaggio.

Il materialista e il televisore

Immaginiamo uno scienziato materialista in un remoto pianeta ove si trova un gigantesco televisore. Questo apparecchio ha uno schermo incastrato in una grande parete nera, tanto che nessuna sua componente interna è visibile a coloro che visitano il pianeta. Il televisore trasmette film e telegiornali di lontane galassie, ma il materialista non può comprendere quale sia la sorgente delle trasmissioni. Per noi, tutto è chiaro: il televisore è alimentato da corrente elettrica che viene prodotta in qualche recesso del pianeta e che alimenta l’apparecchio tramite una presa e dei cavi, in grado di far funzionare lo schermo. Senza questo flusso di corrente elettrica, il televisore non può funzionare. Allo stesso modo, esiste da qualche parte una sorgente di onde elettromagnetiche che il televisore riceve e decodifica, convertendole in immagini sul video e in parole che escono dal microfono. Senza la stazione che invia segnali video e audio, e senza un decodificatore, il televisore non potrebbe in alcun modo funzionare, seppur alimentato correttamente con il flusso di corrente elettrica: il video sarebbe nero e nessun suono intellegibile uscirebbe dall’altoparlante. Il materialista, non potendo indagare sull’origine della corrente elettrica che mantiene acceso il televisore, né tanto meno sul campo elettromagnetico oscillante che codifica immagini e parole, arriverebbe alla conclusione che l’apparecchio genera da sé la propria capacità di funzionare. In nome del Rasoio di Occam, ecco che i lontani generatori e la rete elettrica non sono necessari, ne viene dunque dichiarata l’inesistenza. Ecco che coloro che assemblano i programmi e li trasmettono nello spazio siderale sono mera fantasia, perché ammetterne l’esistenza è cosa troppo complicata. Dato però che il televisore esiste e che trasmette immagini e suoni la cui esistenza non può essere negata – in quanto oggetto dei sensi – ecco che il suoi funzionamento è dichiarato un prodotto del caso o della selezione naturale di elementi dapprima inerti che hanno acquisito un’inesplicabile animazione senza alcuna causa riconoscibile. Così se un uomo saggio spiega al materialista che antichi uomini hanno portato sulla desolata superficie del pianeta quella macchina, e che una civiltà di un lontano mondo madre tuttora trasmette film e documentari che vengono captati, ecco che il materialista insorge, pieno di furia, dichiarando ‘folle’ il saggio. I limitati sensi del materialista non scorgono le parti che costituiscono il televisore, e parimenti egli non ha nozione della civiltà che diffonde le trasmissioni, così dichiara entrambe le cose inesistenti – anche se esse sono dotate di una concreta esistenza a dispetto di ogni dissennato giudizio.

Le obiezioni dei nostri avversari materialisti a un simile argomento sono numerose. Essi dicono ad esempio che il cervello deve essere la sorgente prima dell’autocoscienza, perché se un suo qualsiasi componente subisce danno, la percezione stessa si altera o scompare del tutto, mutandosi la coscienza del paziente colpito in uno stato crepuscolare o in coma. A questa obiezione possiamo facilmente controbattere, affermando che il cervello è qualcosa che permette l’autocoscienza, che le rende possibile dimorare nel corpo, ma che non è la sua causa prima. Se infatti un componente di un televisore, di un computer o di altra simile macchina va in avaria, tale macchina smetterà di funzionare. Eppure è sotto gli occhi di tutti che tale macchina è solo un mezzo e non l’origine di quanto compie. I materialisti confondono l’utente di un televisore o di un computer con l’apparecchio da lui usato. Il fatto che un componente di un televisore o di un elaboratore si rompa non significa che la rete elettrica è venuta meno, né che a subire il danno sia stato l’utente stesso.

Corpi senz’anima e falsi uomini di Scienza

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Può il materialista enunciare in modo chiaro il problema che affligge la Scienza e si vuole risolvere in questa sede? No. Si vede soltanto totale ignoranza del problema stesso. Come si può pretendere di radere la complessità e di ridurre ogni cosa alla spiegazione più elementare se non si conoscono neanche le ipotesi? Abbiamo a che fare con falsi uomini di Scienza, che non seguono alcuna logica rigorosa e che pretendono di sentenziare senza neppure enunciare i termini del problema. Cos’è necessario? Cos’è superfluo? Essi dicono: “Un corpo senz’anima funziona altrettanto bene di un corpo dotato di anima, quindi non è necessario avere un’anima perché un corpo funzioni”. Se però si chiede loro di definire il concetto di anima e di spiegare come il funzionamento di un corpo avviene in concreto, non sono in grado di farlo. Noi vediamo che a un televisore o a un computer è necessaria corrente elettrica per funzionare, altrimenti abbiamo solo inutili carcasse metalliche e plastiche senza barlume di attività propria. Questo perché i televisori e i computer che utilizziamo sono stati costruiti dalla nostra civiltà e conosciamo a grandi linee i principi secondo cui funzionano. Come possiamo quindi, messi di fronte a macchinari costruiti e concepiti da altri, dichiarare con arroganza che non esiste la fonte del loro funzionamento, alimentandosi essi da sé ed essendo stati plasmati senza causa? Prima di far agire il Rasoio di Occam noi dobbiamo investigare ciò che compone l’oggetto del nostro studio e trovare una serie di possibili risposte ai nostri interrogativi – da vagliare con attenzione. I materialisti non agiscono in questo modo: usano uno pseudo-Rasoio di Occam con arroganza e fanatismo, come crociati in una guerra di religione, e reagiscono in modo furioso ad ogni critica. Questo loro modo di procedere si è ormai consolidato in una vera e propria medodologia stereotipa.

Enti complessi devono avere cause complesse

Qualcuno obietterà che non si può paragonare un essere umano a un televisore o a un computer, in quanto si tratta di realtà completamente dissimili che non funzionano allo stesso modo. Infatti le persone nascono dall’accoppiamento di altre persone di sessi diversi, perdendosi la genealogia nella notte dei tempi, mentre le macchine sono assemblate da artefici umani a partire da componenti fatti di materia inanimata. In altre parole, un essere vivente sarebbe il naturale prodotto delle leggi dell’Evoluzione, mentre il manufatto è artificiale e non avrebbe in Natura alcuna esistenza. Tuttavia si vede che un essere vivente, come ad esempio una persona umana, è infinitamente più complesso di un televisore o di un computer. Essendo i viventi tanto complessi, devono per necessità avere cause complesse, che non è facile determinare seguendo filosofia o metodo scientifico. Pertanto, dato che le cause sono complesse e che ci sfuggono i fattori che le definiscono, risulta provata una volta di più l’illegittimità dell’uso del Rasoio di Occam come strumento risolutore.

Non si può usare il Rasoio di Occam per negare che un evento abbia una causa

Molti nostri avversari, che hanno nome di materialisti, sostengono che la creazione dell’universo fisico abbia avuto luogo a partire da un evento simile in tutto a un’immensa deflagrazione, a cui attribuiscono il nome di Big Bang. Tuttavia, quando essi sono interrogati sulla natura esatta di tale evento cosmico, rispondono che non ha avuto causa alcuna, e che anzi non ha senso domandarsi cosa ci fosse prima di detta deflagrazione. Essi sostengono che dal Big Bang hanno avuto origine le leggi fisiche, oltre a tutti i parametri matematici e le caratteristiche geometriche che definiscono in mondo in cui viviamo, e che sono uguali in ogni luogo del Cosmo, dalla Terra fino ai quasar più remoti. Seguendo quanto Aristotele ci insegna, tutto ciò deve per necessità avere una causa. Eppure i materialisti, per non dover ammettere la necessità di un Artefice, sorprendentemente affermano che tutte queste leggi fisiche si sono formate senza alcuna necessità di una causa qualsiasi. Interrogati sull’argomento ed esortati a fornire informazioni più approfondite, essi sostengono che il Rasoio di Occam è proprio ciò che rade la necessità del Fattore del Cosmo, in quanto le leggi fisiche, nate da sé senza causa dal Big Bang, spiegherebbero altrettanto bene il funzionamento di ogni cosa, visibile ed invisibile. Purtuttavia, se una legge fisica si trova ad operare nel mondo sensibile, e il suo funzionamento esatto è provato dall’applicazione del Metodo Scientifico, come possiamo concepire che la sua esistenza non scaturisca da sorgente alcuna? Possiamo noi definire detta legge “priva di causa” solo perché il Metodo Scientifico stesso non ci consente ancora di esplorare il suo universo d’origine? I nostri organi di senso e i nostri strumenti di indagine non possono sondare ciò che vigeva prima del Big Bang, ma affermare che da questa impossibilità derivi l’inesistenza è pura e semplice stoltezza.

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Il testo presente in citazione è stato liberamente adattato dalle considerazioni di questo articolo, cui tributiamo i dovuti crediti.
https://perpendiculum.blogspot.com/2018/07/contro-l-del-rasoio-di-occam.html
 
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Il senso della vita: una riflessione

 Aesthetics Philosophy (@Aestheticsphilo) / Twitter

Una delle principali assurdità nelle quali mi sono imbattuto, e che ho scoperto essere ben diffusa nella società odierna, è la convinzione che la nostra vita sia la migliore delle cose che ci possano mai capitare. Mi scuso: espressa così la frase farà saltare non pochi dei miei lettori dalla sedia. La vita è la migliore delle cose che ci possano mai capitare, ed io sono il primo ad esserne convinto! Esistere, ossia essere posto-in-essere, non ha eguali, e può ritenersi a buon diritto il principio e in qualche modo anche la causa del perchè ciascuno di noi prova qualcosa anziché nulla, sperimenta la contemplazione della meraviglia del mondo senza lasciare che questo sussista vuoto e silente.

C'è un ma. Un ma molto grande, un paradosso insolubile.

Come ben sapete, la posizione di chi scrive è certo orientata verso questo ottimismo esistenziale anche ed anzi in gran parte grazie alla sua inclinazione religiosa. Essa infatti mi fa “leggere” il reale e quanto contiene, le sue categorie e la sua complessa trama, secondo un disegno ben preciso ed intessuto di razionalità, senso e speranza.

Ma la maggior parte che ripete assieme a me questo, là fuori, spesso non è affatto mossa da alcuna considerazione in tal senso ed anzi abbraccia una visione materialistica ed atea dell'esistenza, tuttavia continua a ritenere che la vita umana abbia un certo grado di valore in sé (e se dicono il contrario, dimostrano con l'azione di non pensarla affatto così) e che le loro esistenze possano dunque essere animate da un senso, un fine.

Qui sorge il paradosso: fingendo ora di incarnare il pensiero di una qualunque di queste persone secolarizzate del nostro mondo, ed adottandone i principi e la lettura del mondo, la mia visione animata da una profonda fiducia nel valore della vita e del sue senso è definibile razionale?

Secondo il pensiero razional-materialista che oggi domina l'orizzonte culturale degli eventi, dovrebbe essere difficile rispondere affermativamente. Accade però il contrario.

Secondo l'uomo moderno che devo incarnare, ogni cosa è dominata dal cieco caso. Il furore degli eventi è regolato da un complesso e bilanciato gioco di equilibri, dove le leggi fisiche hanno la maggiore. La nascita dell'universo, la formazione di un ambiente che permetta la nascita e lo sviluppo della vita, la stessa nascita e sviluppo di forme di vita ed il loro organizzarsi sempre più complesso, la nascita di menti in grado di astrarre dalla stessa materia di cui sono costituite per parlare di universali e trascendere lo stesso spazio fisico...sono state fortunatissime, quanto forse irripetibili, casualità. Siamo qui: questo conta. A che serve pensare ad altro? La vita è preziosa proprio perchè è breve, non è eterna: godiamocela. Chi vuol esser lieto sia: di domani non c'è certezza.

Come figlio di processi deterministici, l'uomo stesso non può che essere soggetto dominato dalle leggi di natura. Un complesso di atomi un po' bizzarro, con un piede sull'orlo del nulla eterno. Non essendoci alcun dispositore esterno, cessa di essere ritenuta plausibile l'idea stessa della trascendenza: questa, assieme alla morale, non può che essere letta in due sensi. O come costrutto socialmente utile, ma non assolutizzabile, o come vantaggio evolutivo, utile nel progredire in una evoluzione puramente orizzontale e materiale. Sì, siamo macchine neurali, molto complesse, incredibilmente complesse. Sì, il nostro libero arbitrio è un'illusione: le nostre scelte sono figlie di una complessa quanto determinata dialettica tra la nostra psiche e l'ambiente che ci circonda. I nostri sentimenti sono segnali chimici, nulla di più: però, accidenti se brucia dannatamente quell'amore perso nel passato! Sì, occupiamo un ruolo insignificante nella vastità del tutto, quindi siamo in qualche modo insignificanti. Là fuori c'è il nulla, la nausea cosmica ed il vuoto che ha in pegno la nostra anima. Ovviamente è un poetismo: di atomi si parla. Il nostro ricordo? Un'ombra nel nulla eterno. Però l'uomo è capace di cose stupende, progetti meravigliosi! Certo, ma sono il chiaro frutto della sua evoluzione, ed il suo desiderio di infinito non è che un'illusione.

MA

la vita è bella, e c'è posto per l'ottimismo! Io ci vedo un senso, una direzione...io l'ho decisa! E quindi ho anche un valore. Divertiamoci, e viviamo appieno, respirando a pieni polmoni della vita che ci è stata consegnata dal caso. Potevamo non nascere, ma ora siamo qui!

Spero di aver reso con un poco di maliziosa ironia la questione.

Io invece la vedo come segue.

La vita non può essere ritenuta preziosa a partire dalla sua stessa breve durata. Non basta che un qualcosa abbia vita breve perchè valga. Di fatto un tale assunto si poggia su una convinzione simile: ciò che è effimero e perituro ha un valore; ciò che è eterno ed incorruttibile non ha valore. Comprendiamo come una simile constatazione non sia solamente contro-intuitiva, ma che sfiori persino l'assurdo. Chi tra di noi, se potesse scegliere, opterebbe per vivere solamente pochi minuti quando potrebbe vivere anni, decenni interi? O chi preferirebbe stringere tra le mani un fiore, una pietra preziosa, che si corrompa dopo un istante di contemplazione? Non a caso, a proposito si parla di caducità, di cose periture, vane. Tuttavia l'uomo, spesso tende a comprendere il valore delle cose che posside solo quando le perde, e conosce la loro non-eternità. Ciò porta a condensare questa esperienza umanissima sulle considerazioni circa il valore della vita, ma non le rende vere né oggettive. Ci si dice: “ho imparato tardi il valore di ciò che ho perso solo quando l'ho perso. Non posso più permettermi di sbagliare, e devo stimare tanto più valida un'esperienza quanto più so che essa finirà presto, per non dover rimpiangere il non averla saputa apprezzare...”

Ma mai avremmo potuto constatare che quel dato oggetto avesse un valore, solo grazie al nostro averlo perduto: l'oggetto in sé deve aver avuto un valore a prescindere da questo. Il valore delle cose non è legato al loro perderle, ma alla conoscenza che facciamo di queste. Non a caso, se rimpiango di aver perso una persona cara, la rimpiango perchè riconosco, a posteriori, il valore che di lei non avevo saputo conoscere in precedenza. Ciò significa che l'essere umano può riconoscere il valore di una persona, un oggeto, della vita...senza dover per forza passare attraverso il doloroso cammino del perderli: può farlo attraverso la luce della ragione, cercando di non indurire il cuore. L'uomo può intraprendere questa saggia via o limitarsi a sbagliare e, attraverso l'errore, accumulare l'esperienza di vita per evitare futuri errori.

Un qualcosa, perchè possieda un valore oggettivo, deve possedere una finalità oggettiva. Il diamante è prezioso perchè trova ampio uso nella costruzione di componenti di precisione nell'industria chirurgica. Ma senza un fine oggettivo verso il quale l'uomo sia chiamato, cessa di esistere qualunque valore a lui intrinseco.

Cade il senso stesso della domanda: “c'è un senso?”

Essa può essere rivolta solo ad un ascoltatore, e non di certo ad un universo incapace di trascendenza.

La vita dell'uomo non vale più della neve che cade, del pesce che boccheggia in uno stagno o di una supernova in collasso. Tutte queste cose sono accomunate da un solo fatto: avvengono, esistono. Ma non hanno un fine, se non quello di avvenire. Non hanno uno scopo, se non quello di colmare il vuoto che la loro non-presenza lascerebbe. Per caso, tutto esiste. Per caso, tutto potrebbe non esistere. Ma sarebbe un'altra storia e noi non potremmo neppure ponderarla, non esistendo.

La vita può avere un valore oggettivo solo se è mossa da un fine oggettivo. Altrimenti, per sopperire a questa mancanza di senso, occorre arrangiarsi da soli, tappare i buchi.

“La mia vita ha il senso di fare tanti soldi e spassarmela”

“La mia di godermi i piaceri...ricercare la saggezza...salvare vite...”

Ma nessuno di questi scopi è il Senso della vita. La loro pluralità dimostra proprio questo: che, in assenza di uno scopo preciso, ciascuno ha cercato di adattare la propria vita a quello che più riteneva appetibile, calzante, ispirante. Per carità, è un bene che ciascuno di noi imposti la propria vita attraverso questi micro-scopi. Ma se essi non sono sostenuti da un macro-senso della vita, allora la loro utilità non sta tanto nel fornire uno scopo oggettivamente valido all'esistenza quando quello di farci convivere meno angosciosamente con le premesse del nostro pensare materialistico.

Là fuori, direbbe Sartre assieme a diversi esistenzialisti novecenteschi, non c'è che l'indifferenza universale. Tout court.

Ma l'uomo deve arrangiarsi, darsi una direzione che lo distragga dall'intrinseco non-senso della vita in prospettiva materialistca.

Ma se anche facesse così, sarebbe razionale affermare che la vita, di per sé -se proprio non ha un senso ed un valore intrinseci- è una cosa positiva, gradevole, un numero fortunato al lotto?

Pare di no.

Tirando le somme, infatti, il responso è abbastanza deludente. Premesso che, nell'ottica determinista ed ateo, la vita si riduce ad un mero ciclo biologico privo di qualunque appiglio metafisico (non ci sarà alcuna consolazione in una vita dopo la morte, le preghiere rimangono inascoltate, le religioni sono un costrutto sociale per allietare la nostra tensione all'infinito [che il caso ci avrebbe fornito per un amaro scherzo del destino] etc) occorre valutare quanto gli aspetti materiali della vita siano soddisfacenti o meno.

Partiamo dai piani inferiori e più basilari di ciò che la vita offre ad un buon materialista.

Possiamo strafogarci di buon cibo ed inebriarci di vino, circondarci di ogni sorta di piacere e frastornarci per notti intere con ciò che maggiormente sembra dilettarci. E' un buon inizio (sic!)...ed anche la fine. Schopenauer bene diceva, a tal proposito, quando paragonava la vita ad un pendolo oscillante tra la noia ed il dolore: nel mezzo, il piacere. Un fugace istante raggiunto con fatica, ma poi subito perduto, perchè transeunte. Ed ecco che sopraggiunge il dolore della perdita, e la noia dell'attesa di qualche altro piacere da strappare alla vita. Godere di questi piaceri, poi, non è affatto una certezza, e neppure una garanzia. Non è una certezza, perchè spesso per poterne godere si abbisogna della salute, di un buon grado di pecunia, di ricchezza. Che deve dire un malato, povero, incapace di accogliere dalla vita questi pochi piaceri che offre? Di certo per lui la vita non è un affare, direbbe il materialista coerentemente col suo pensiero. La vita è un affare quando possiamo godercela appieno, spingere l'acceleratore al massimo. Non è neppure garanzia di felicità: piuttosto di nausea e disillusione. Si raggiunge qualcosa che si crede ci avrebbe saziato, ma essa si rivela ben poca cosa di fronte alla fame interiore. Quel desiderio di piacere infinito (Leopardi) -o forse-: beatitudine.

C'è però chi contesta: un materialista non deve per forza abbruttirsi alla ricerca di questo spasso gretto e animalesco. Un uomo può trarre piacere da molte altre cose. Dedicarsi, ad esempio, ad un passatempo intellettuale. Scrivere, comporre musica. Dipingere, scolpire. Questi spiriti elevati, però, dovrebbero a maggior ragione sentire su di loro tutto il tragico peso della condizione umana. Dovrebbero, più degli altri, saper sondare le ombre dell'esistenza per concludere che l'uomo è un essere disperato, un titano eroico e caduco, preda di un fato amaro e crudele. Come nella mitologia greca, l'uomo combatte con le forze avverse che lo respingono al fango della morte e della dissoluzione. L'anelito di morte del caso lo sospende sul mare dell'incertezza, ma l'uomo, così umano e così nobile, guarda al cielo sperando di ottenerne risposta, riconoscendo che per lui la morte significherebbe un inutile spreco di vita, energia, intelletto. Riconosce l'assurdo di una vita plasmata dal caso, che l'ha tirato fuori dal nulla giusto per porsi domande senza risposta e morire nell'angoscia.

Il pastore errante guarda le sue greggi e le invidia, le invidia perchè esse non hanno un peso nel cuore come ha lui, diceva Leopardi. E cos'è questo, se non bisogno di Dio? Cos'è, se non rivolta contro l'oppressione del caso, del non-senso, dell'irrazionale?

Tirando le somme, senza una prospettiva ulteriore che dia un senso ed un valore oggettivi all'esistenza, la vita non è altro che dolore e noia, intervallata da brevi momenti di piacere e incoscienza. Ma, presa di petto, è una situazione tragica. Senza contare il problema del male. Il cristiano ammette l'esistenza del male, ma ammette anche la sua transitorietà e, appellandosi a Cristo, spera: non vede il male come un inutile sfogo del destino, ma come via di redenzione. Un materialista può ammettere l'esistenza del male, ed essere realista, ma vivere come non ci fosse per non disperare oppure fingere di non vederlo, per vivere in pace: in entrambi i casi il male non è razionalmente spiegabile. Accade, e questo è tutto. Accade, e l'uomo ha la sfortuna di soffrirlo più di qualunque altro essere che lo accompagna in questa vita.

Asserire che la vita è bella ed ha un grande valore è razionale solamente prescindendo dalla visione atea e materialista. Difatti, non è raro trovare chi adotta questa visione disperarsi allorquando le condizioni materiali della sua vita cambiano; quando la salute e la ricchezza vengono meno e la parvenza di certezza data dai piaceri coi quali la bontà della vita era giustificata si sgretola.

Non c'è razionalità -la stessa contestata ai credenti dai non-credenti- che tenga innanzi questa asserzione, solo, un grande, umanissimo desiderio di dare una parvenza di significato, di indirizzo e scopo a ciò che valore oggettivo, razionalmente, non potrebbe mai avere. 

                                                                                                           La Redazione

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