Translate

Il Venti Settembre

A ricordo della breccia di Porta Pia, avvenuto in questa data ben centocinquantatrè anni fa, il blog presenta un magnifico quanto esaustivo articolo di Francesco Pappalardo, comparso sulla rivistà Cristianità n. 93 (1983), curata da Alleanza Cattolica.

A tutti i lettori, una buona lettura.

 Porta Pia, quella Breccia che rese Roma Capitale d'Italia

Giuseppe Garibaldi: una spada contro la Chiesa e la civiltà cristiana

L’«anno garibaldino» appena concluso è stato caratterizzato da una «agiografica» esaltazione del preteso «eroe dei due mondi», alla quale si sono prestati «intellettuali» e uomini politici di svariate provenienze ideologiche. Una lettura di Giuseppe Garibaldi, che rivela in modo accuratamente fondato nei fatti e nei documenti la personalità del nizzardo: un uomo che ha speso la propria esistenza esclusivamente per promuovere la scristianizzazione dei popoli, e di quello italiano in particolare.

La storia del Risorgimento, che costituisce per tutti gli italiani «la prima forma impartita di educazione civica» e ne scandisce la vita fino a diventare «quasi categoria di ogni ragionamento politico» (1), è da oltre cento anni strumento per una accurata opera di «pedagogia patriottica», mirante alla formazione della «coscienza nazionale», intesa quale insieme di valori globalmente alternativi al cattolicesimo e alla sua incidenza politico-sociale.

Il centesimo anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi, il cui nome è legato a una lunga serie di vicende, anche recenti, della nostra storia (2), ha offerto la possibilità di ripresentare gli ideali risorgimentali, che «debbono continuare ad ispirare la lotta per il rinnovamento ed il progresso nazionale» (3).

Le celebrazioni – non esenti da una stucchevole oleografia, il cui fine sembra essere stato quello di impedire l’apertura di una sia pur minima crepa nel granitico mito garibaldino – sono state, infatti, «occasione per approfondire anche meglio la coscienza della storia moderna d’Italia» e delle radici dello Stato italiano, «che affondano nelle tradizioni eroiche e gloriose del Risorgimento nazionale» (4).

Giuseppe Garibaldi, oggi «simbolo di una nuova unità morale degli italiani» (5), deve contribuire a perpetuare «quella certa idea dell’Italia che dal Risorgimento arriva fino a noi, e che si vuole «trasmettere intatta alle nuove generazioni» (6).

Questa è la base comune non solo alle due correnti ideologiche che maggiormente rivendicano la memoria dell’«Eroe», cioè il socialismo e il repubblicanesimo, ma anche alle altre correnti di pensiero, eredi della tradizione «laica» e risorgimentale; né va dimenticata la rivendicazione più apertamente nazionalistica e fascistica, che ha permesso di allargare le celebrazioni garibaldine anche al di fuori dell’«arco costituzionale». Il partito che, tuttavia, si è maggiormente distinto nella campagna di revival garibaldino è stato quello socialista, che da un certo tempo a questa parte si è seriamente impegnato nel tentativo di indossare il tricolore sulla camicia rossa.

La riscoperta di Garibaldi poteva essere il mezzo ideale per accrescere e sfruttare un consenso di massa a tutto vantaggio del partito che si apprestava a «governare il cambiamento» (7), anche se l’obiettivo è «più ambizioso: recuperare tutto quanto c’è di vivo e di progressivo nella tradizione democratica e socialista del nostro paese, ivi compresa la componente nazionale […]; una operazione culturale che io definirei culturalmente egemonica» (8). Poiché tale operazione ha costituito una nuova tappa nell’itinerario rivoluzionario che la nazione va forzatamente compiendo, è necessario e tempestivo opporre la verità storica alle mistificazioni che servono da copertura ideologica alle scelte politiche odierne, affinché sia ben chiaro che queste altro non sono che il proseguimento di quel «preteso Risorgimento» che Pio IX definì «il trionfo del disordine e la vittoria della più perfida rivoluzione» (9), e che Leone XIII spiegò essere una mossa del più «vasto complotto che certi uomini hanno ordito per annientare […] il cristianesimo» (10).

Acquista così nuova luce anche la figura di Giuseppe Garibaldi, il perseverante collaboratore dell’opera di distruzione della civiltà cristiana, tentata per edificare in suo luogo una repubblica universale, ugualitaria e gnostica. 

La distruzione della Chiesa, vero scopo del Risorgimento

Giuseppe Maria Garibaldi nasce a Nizza nel 1807. La madre, molto devota, avrebbe desiderato vederlo consacrato al sacerdozio; la sua educazione viene dunque affidata a religiosi: «I miei primi maestri furono due preti; e credo l’inferiorità fisica e morale della razza italica provenga massime da tale nociva costumanza» (11).

Era l’apertura delle ostilità: quando il ragazzo sarebbe divenuto uomo, avrebbe definito la Città Eterna «capitale della più odiosa delle sette» (12), il trono del Pontefice «il seggio della serpe» (13), il Papato «cancro d’Italia» (14). 

In materia di religione non avrà mai idee, ma sentimenti, e questi piuttosto contraddittori. Il panteismo, il sincretismo, le utopie sansimoniane lo attireranno successivamente, senza riuscire a fissarsi nel suo pensiero. La sua mentalità era di stampo illuministico: egli credeva fermamente nel progresso illimitato della Umanità, e riteneva che quel progresso sarebbe stato facile e spontaneo, se non fossero esistite forze maligne che, per oscuri interessi, lo contrastavano. Queste forze trovavano la loro massima espressione nella Chiesa cattolica, rappresentata dal prete, «la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli» (15). Garibaldi sarà sempre legato alla grande utopia di una «liberazione» dell’uomo interamente «laica», prodotta con le sue sole forze, grazie all’apporto determinante del progresso scientifico e tecnico (16), attestante la potenza della nuova religione, la «religione del vero», «basata sulla ragione e la scienza» (17). Opposta a essa vi era la religione «del prete, che è la menzogna. Libertà di ragione: ecco la bandiera che opponiamo al cattolicesimo, il quale ha per tanti secoli abbrutito la creatura umana» (18).

L’illusione di Garibaldi sarà sempre quella di gettare le basi di una nuova pietas popolare, spogliata dell’intero armamentario dogmatico e disciplinare, imperniata sul municipio e sulla nazione, anziché sulla parrocchia e sulla Chiesa.

Cristo stesso veniva considerato non più «sotto l’aspetto della Divinità, cui vollero attribuirlo i preti vari secoli dopo morto, per trafficarlo ma sotto l’aspetto delle sue virtù, come Uomo e come Legislatore» (19).

Garibaldi, tuttavia, non disporrà mai di una dottrina organica e nelle sue invettive anticlericali, traboccanti spesso dal terreno politico a quello della dogmatica cattolica (20), non riuscirà ad andare oltre alla contrapposizione dei «principî del vero» alle «turpi menzogne» del Vaticano.

Quella sua viscerale avversione verso il clero, il Papa e la Chiesa celava comunque un’avversione ben più profonda: «Come la nostra lotta coi clericali tiene oggi sospeso tutto il mondo civile; così la nostra vittoria su Dio (!) sarà l’acclamata rivendicazione della libertà di coscienza ed il trionfo della ragione sul pregiudizio» (21).

Queste convinzioni facilitano l’accostamento del giovane Garibaldi alle società segrete del suo tempo, unite dall’odio comune verso il cattolicesimo: «[…] il nostro scopo finale – era scritto in una Istruzione segreta permanente data ai membri dell’Alta Vendita carbonara, datata 1819 – è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilamento completo del cattolicismo e perfino dell’idea cristiana, la quale, se rimanesse in piedi sopra le ruine di Roma, ne sarebbe più tardi la perpetuazione» (22).

Lo stesso Giuseppe Mazzini era fautore di una religione «civica», in cui la morale di Cristo era integrata da comandamenti rivoluzionari e incendiari, e che doveva sostituire la religione cattolica: «Una nuova epoca sorge, la quale non ammette il cristianesimo, né riconosce l’antica autorità» (23); «l’epoca cristiana è conclusa» (24); «il cattolicesimo è una materializzazione della religione e una setta» (25).

La nuova «religione dell’umanità», di cui Garibaldi e Mazzini si facevano apostoli, pur con differenze contingenti, aveva come fine dichiarato la soppressione del principato civile del Pontefice, mezzo necessario non già alla realizzazione della unità nazionale, bensì al compimento del «pravo disegno di distruggere più facilmente, mediante la soppressione del […] temporale dominio, le istituzioni tutte della Chiesa, annientare l’autorità della Santa Sede, abbattere il supremo potere del vicario di Gesù Cristo» (26).

La vaga e confusa adesione di Garibaldi al socialismo

La formazione ideologica di Garibaldi è soprattutto mazziniana anche se egli, nelle sue Memorie, insiste sulla importanza dell’incontro con i socialisti sansimoniani.

In realtà, egli non assimilerà mai il socialismo, né come teoria né come azione, pur concedendo a esso qualche simpatia, in quanto gli pareva potesse corrispondere alle sue indefinibili aspirazioni umanitarie. Il principio di divisione che quel movimento portava in sé, nonché concetti quali il collettivismo, la dittatura del proletariato e soprattutto la lotta di classe, che è la caratteristica del socialismo scientifico, non avranno presa su di lui: «Le difficoltà che presenta il socialismo nella sua applicazione nascono dal non volerlo rendere praticabile, coll’abolizione della famiglia, della proprietà, ecc.» (27).

Ciò che invece lo colpiva era il contenuto ideale e utopistico di alcune affermazioni, le grandi parole «giustizia», «emancipazione dei popoli», «unione degli oppressi», che erano alla base di quella «religione dell’umanità» che egli coltivava. Le sue preferenze andavano alle questioni relative all’assetto della società, che si doveva trasformare attraverso una sorta di automatismo prima militare, poi culturale, che non prevedeva né lotta di classe, né tantomeno una politica riformistica.

Giuseppe Garibaldi matura politicamente nel clima della Restaurazione. Dopo la bufera del 1789, che in Italia non aveva suscitato alcun entusiasmo, se non presso esigue minoranze, le forze rivoluzionarie devono ripiegare sulla cospirazione, continuando a lavorare per portare a termine il loro sovversivo disegno unitario, che avrebbe raggiunto il suo scopo soltanto con la famigerata breccia di Porta Pia. «[…] la rivoluzione ha mutato marcia e tattica. – scrive nel 1818 il cardinale Ercole Consalvi al principe di Metternich – Essa non se la piglia più ora, armata mano, contro i troni e gli altari: essa si contenterà di minarli» (28).

La restaurazione voluta da Metternich non riafferma, purgandoli dagli inquinamenti rivoluzionari, i principi della tradizione, dell’ordine e della religione, ma si accontenta di riportare la calma in superficie, nella illusione di disarmare la Rivoluzione con una politica illuminata e di conciliazione. A nulla valgono gli avvertimenti lanciati da spiriti acuti, quali il principe di Canosa a Napoli, il conte Monaldo Leopardi nello Stato pontificio, il conte Clemente Solaro della Margarita in Piemonte, né le brevi ma violente esplosioni rivoluzionarie del 1821 e del 1831. La propaganda dei settari può continuare quasi indisturbata a lavorare alla alterazione delle idee e al corrompimento dei costumi, preparando il campo per una nuova e più concreta vampata rivoluzionaria. 

Garibaldi fa il suo ingresso nella cospirazione mazziniana verso il 1833 e presto passerà all’azione. Arruolatosi nella marina sarda per compiervi opera di proselitismo, nel 1834 cerca invano di sollevare i marinai della flotta e, condannato a morte come traditore e nemico della patria, deve rifugiarsi prima a Marsiglia, quindi in Sudamerica.

Corsaro e mercenario in Sudamerica

A Rio de Janeiro, Garibaldi viene accolto dagli esuli mazziniani e può riprendere, presso la locale colonia italiana, almeno l’attività propagandistica. 

L’occasione per impugnare nuovamente le armi non si fa attendere, essendo scoppiata la rivoluzione Farroupilha, che porta alla secessione, liberale e repubblicana, della provincia del Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano (29).

Garibaldi, munito di una «lettera di corsa» fornitagli dal capo ribelle Benito Gonçalves, potrà così abbandonarsi per diversi anni a una lunga serie di azioni di pirateria contro le navi e le coste brasiliane, al comando di «quella classe di marinai avventurieri conosciuti […] sotto il nome di “Frères de la côte”, classe che aveva fornito certamente gli equipaggi dei filibustieri, dei bucanieri, e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri» (30).

Anche i libri scritti con intento apologetico ammettono che non tutti i compagni di Garibaldi «erano idealisti ed eroi; v’erano anche delle emerite canaglie, dei deboli, degli elementi sospetti» (31).

In una delle sue frequenti scorrerie lungo le coste del Brasile, il giovane corsaro incontra Anita, la prima di numerose mogli, e la porta con sé, incurante del fatto che essa fosse già sposata a un certo Duarte, che ne morirà di crepacuore. Garibaldi, travolto dalla passione, aveva calpestato «non solo le leggi civili, alle quali dava poca importanza, e quelle religiose che affettava di disprezzare, ma anche gli scrupoli naturali di un animo generoso e i principii universali dell’ospitalità» (32).

Alle azioni di pirateria seguiranno, quando la flottiglia viene distrutta, operazioni terrestri, durante le quali Garibaldi ha modo di distinguersi anche per le rappresaglie compiute dai suoi uomini, come quella contro la cittadina di Imiriù, che non voleva saperne di essere «liberata». Vi sono scene orribili di saccheggi e di assassini da parte della truppa ubriaca; uno spettacolo allucinante, al punto che è impossibile «narrarne minutamente tutte le sozzure e nefandità» (33); soltanto «con minacce, percosse ed uccisioni si pervenne ad imbarcare quelle fiere scatenate» (34).

Prima che la rivolta del Rio Grande do Sul sia spenta dagli imperiali, Garibaldi si rifugia in Uruguay, anch’esso sconvolto da una guerra civile. Egli si schiera con il presidente golpista Rivera, capo dei liberali colorados, sostenuto dal Brasile e dall’Inghilterra, la quale mirava al controllo dell’estuario del Río de la Plata, indispensabile per la difesa del proprio monopolio commerciale; sul fronte opposto combattevano i blancos del deposto presidente Oribe, a loro volta sostenuti dai gauchos dell’interno, dalle gerarchie ecclesiastiche e dal presidente argentino de Rosas. Garibaldi, che con un disinvolto cambiamento di fronte era passato dalla parte dei suoi ex-nemici brasiliani, si trova così a combattere non per la libertà delle popolazioni rioplatensi, che anzi si impegneranno strenuamente nella difesa delle loro tradizioni culturali, ispaniche e cattoliche, ma per assicurare «libertà di commercio» all’impero britannico.

Né è estranea a questo impegno la sua iniziazione massonica, avvenuta nel 1844 a Montevideo, prima presso la loggia «dissidente», denominata «Asilo de la Vertud», quindi presso la loggia «Amis de la Patrie», dipendente dal Grande Oriente di Francia (35). In Sudamerica, infatti; era palese la coincidenza tra «liberali» e organizzazioni massoniche; i moti per la «indipendenza» o per la «libertà» erano sorretti dalle massonerie d’Inghilterra e degli Stati Uniti, interessate non solo a sottrarre l’America meridionale alla egemonia «clerico-reazionaria» degli Stati iberici e a condurla alla «civiltà», ma anche ad attrarla nell’orbita economica angloamericana.

Ben al corrente di tutto ciò, Giuseppe Garibaldi mette la sua spada al servizio della Rivoluzione, capeggiando in Uruguay una banda composta da italiani (36) e da gente di altre nazionalità, «quasi tutti disertori da bastimenti da guerra. E questi – confessava Garibaldi – erano i meno discoli. Circa agli americani, tutti quanti, quasi, erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidio. Dimodoché, essi erano veri cavalli sfrenati» (37). Le gesta garibaldine, debitamente purgate da ogni «deplorevole eccesso», saranno largamente pubblicizzate dai settari che agiscono in Italia e all’estero (38).

Giuseppe Mazzini, in particolare, coadiuvato dalla stampa anglo-americana, costruisce passo a passo il mito di Garibaldi in Italia, attraverso infuocati articoli sull’Apostolato popolare e su altri giornali, nonché con un opuscolo «riepilogativo», diffuso nel 1847.

In quell’anno, Mazzini – che bene aveva inteso come la fama di quell’italiano combattente all’estero potesse essere utile alla causa rivoluzionaria – si dà molto da fare perché questi torni in patria con la sua Legione. Soltanto l’anno successivo, però, quando la guerra in Sudamerica comincerà a languire, a causa del ritiro degli inglesi, egli ottiene che Garibaldi si imbarchi alla volta dell’Italia, dove intanto erano maturati grandi eventi.

L’abiezione della Repubblica Romana svela il volto della Rivoluzione

L’attività rivoluzionaria, in quegli anni, era continuata instancabile, con l’obiettivo principale di screditare il potere temporale della Chiesa, suscitare disprezzo verso i suoi ministri e infiltrarsi fra i cattolici, provocandone la divisione. A tale fine, aveva preso piede la corrente del liberalismo sedicente cattolico, facente capo a Vincenzo Gioberti e a Massimo d’Azeglio, che intendeva conciliare il cattolicesimo con la Rivoluzione, rivestendo le dottrine rivoluzionarie di forme religiose, in modo tale da sedurre gli incauti.

La Rivoluzione, tuttavia, mirava ben più in alto, cioè al coinvolgimento del Pontefice: «Quello che noi dobbiamo cercare ed aspettare, come gli ebrei aspettano il Messia, si è un Papa secondo i nostri bisogni […]. Con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non cogli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e coll’oro stesso dell’Inghilterra» (39).

Questa eccezionale occasione sembra essere giunta con l’ascesa al trono pontificio, nel 1846, di Pio IX, le cui prime iniziative suscitano reazioni sproporzionate che, abilmente manipolate, servono a creare il mito del Papa «liberale». 

Nel 1847, il congresso massonico internazionale di Strasburgo, giudicati maturi i tempi, mette a punto i piani per una nuova ondata rivoluzionaria, che puntualmente l’anno successivo travolge prima Parigi, dove la monarchia liberale viene sostituita da una repubblica «democratica», poi Vienna, Budapest, Francoforte, Milano, estendendosi a tutte le regioni italiane.

Garibaldi – che l’anno precedente aveva offerto i suoi servigi a Pio IX (40) – tenta di arruolare, con i fondi avuti da Mazzini, un certo numero di suoi compagni, ma riesce a raccoglierne solo sessantatrè, alla testa dei quali sbarca in Italia. Respinto da Carlo Alberto di Savoia, si mette agli ordini di Gabrio Casati, presidente del governo provvisorio di Milano, che lo invia contro gli austriaci nel Varesotto, dove, tra una scaramuccia e l’altra, si distingue ancora una volta nel taglieggiare le popolazioni (41), finché è costretto a riparare in Svizzera. Dopo l’armistizio Salasco, che poneva momentaneamente fine alla guerra austro-piemontese, Garibaldi marcia alla volta di Roma, dove la situazione era andata sempre peggiorando da quando il Pontefice, con l’allocuzione concistoriale del 29 aprile, aveva solennemente rifiutato di porsi alla testa della Rivoluzione in Italia. In autunno, dopo l’assassinio del ministro Pellegrino Rossi, i settari, ormai padroni della piazza, costringono Pio IX a rifugiarsi a Gaeta, presso l’ospitale Ferdinando II di Borbone.

Garibaldi si impegna inizialmente nella repressione del «brigantaggio» (42); quindi, eletto deputato della Costituente, si reca a Roma, partecipando alla proclamazione della repubblica e della decadenza del potere temporale dei Papi, il 9 febbraio 1849.

La soppressione del principato civile del Pontefice doveva essere la prima mossa per la distruzione della Chiesa cattolica, unica reale antagonista della Rivoluzione (43). «Chi non sa – afferma accoratamente il Papa da Gaeta – che la città di Roma, sede principale della Chiesa cattolica, è ora divenuta ahi! una selva di bestie frementi, riboccando di uomini d’ogni nazione, i quali o apostati, o eretici, o maestri del comunismo, o del socialismo, ed animati dal più terribile odio contro la verità cattolica, sia con la voce, sia con gli scritti, sia in altro qualsivoglia modo si studiano a tutt’uomo d’insegnare e disseminare pestiferi errori di ogni genere, di corrompere il cuore e l’animo di tutti, affinché in Roma stessa, se sia possibile, si guasti la santità della religione cattolica, e la irreformabile regola della fede?» (44).

Mentre la propaganda anticristiana raggiungeva il suo culmine, si moltiplicano le occupazioni e i saccheggi di conventi e di monasteri, nonché gli atti di violenza contro la popolazione, al suono di una Marsigliese così trasformata: «Allons enfants de sacristie/ le jour de honte est arrivé» (45).

Garibaldi, a sua volta, secondato da padre Gavazzi (46), incita a «sempre più ispirare nel popolo romano inestinguibile odio contro quel potere da esso per sempre rovesciato allorché aveva proclamato la santa parola di repubblica» (47).

La repubblica, in realtà, aveva i giorni contati. Luigi Napoleone Bonaparte, l’antico carbonaro ora presidente della repubblica francese, spinto dalla opinione pubblica cattolica del suo paese e ansioso di precedere l’intervento austriaco, decide di inviare un contingente di truppe per riportare il Pontefice a Roma. Garibaldi, che il mese prima si era salvato a stento, a Velletri, di fronte alla carica di un reggimento della cavalleria napoletana inviato in difesa dei territori della Santa Sede, non può contrastare la superiorità francese e deve ritirarsi verso l’Italia settentrionale.

«Mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte […] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma» (48). L’Appennino viene attraversato due volte, ma la popolazione «non rispondeva all’appello», anzi, era dichiaratamente ostile.

«Le città si serravano, le campagne lo imprecavano; egli dove poteva requisiva a forza vettovaglie e denari, poneva taglie, pigliava ostaggi, né li rilasciava senza pria la moneta» (49).

Garibaldi è stupito dal mancato sostegno popolare e addossa le colpe di ciò, come sempre, ai sacerdoti: «Ho veduto i preti stessi, col crocefisso alla mano, condurre contro di noi i nemici del mio paese […]. Collo stato depresso dei cittadini, come dissi, e quello ostile della campagna in mano ai preti, ben precaria diventava la condizione nostra, e presto noi sentimmo gli effetti della reazione rinascente in tutte le province italiane» (50).

Di fronte alla inattesa reazione della parte sana del popolo italiano, che ancora una volta si stringeva a difesa del Trono e dell’Altare contro la brutale aggressione rivoluzionaria, Garibaldi, abbandonato dai suoi e vedovo di Anita, deve congedare i resti del suo esercito e abbandonare la penisola, in attesa di tempi per lui migliori.

La unione forzata del Sud al regno sardo. Il dramma del cosiddetto «brigantaggio»

La esplosione rivoluzionaria del 1848 si era rivelata prematura e ciò rende necessaria una «tregua», che permetta di continuare a livello diplomatico l’opera forzatamente interrotta sui campi di battaglia.

In Italia, il primo ministro sardo, conte di Cavour (51), comincia a tessere un’abile trama di intrighi, legando alla causa rivoluzionaria italiana, ormai apertamente patrocinata dalla dinastia sabauda, anche Napoleone III e l’inglese lord Palmerston. Un’aspra e diffamatoria campagna viene condotta, a livello europeo, contro Roma e i legittimi governi della penisola, mentre il regno sardo si impegna in una violenta persecuzione anticattolica, coperta dalla formula «Libera Chiesa in libero Stato».

Nel 1856, inoltre, si costituiva a Torino la Società Nazionale, per coordinare l’azione settaria in vista dei prossimi rivolgimenti.

Giuseppe Garibaldi, che in quegli anni era tornato marinaio sulle rotte dell’America meridionale, dell’Australia e della Cina (52), decide di rientrare nel regno di Sardegna, passando per Londra, dove si incontra con Mazzini e con i «democratici» della loggia «Philadelphes».

La mancata partecipazione del popolo ai numerosi tentativi insurrezionali – ultimo dei quali è quello del 1853 a Milano -, lo avevano convinto che occorreva puntare su un soggetto politico sicuro, il regno sardo, per realizzare in tempi brevi la unificazione rivoluzionaria dell’Italia. La formula «Italia e Vittorio Emanuele». con la conseguente accettazione momentanea della monarchia quale «alleato», viene proclamata dal nizzardo come l’unica valida per accelerare la laicizzazione del paese. «Se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue fila» (53).

Nel 1857 aderisce alla Società Nazionale, quindi stringe intese politiche con Cavour che, dopo gli accordi di Plombiéres con Napoleone III, aveva progettato di affidargli un colpo di mano, poi cancellato, per provocare l’intervento dell’impero asburgico e il conseguente ingresso in guerra della Francia a fianco del Piemonte. Il conflitto scoppia, comunque, l’anno seguente e Garibaldi vi prende parte con il grado di generale di brigata dell’esercito sardo, al comando di un corpo di Cacciatori delle Alpi.

Dopo l’armistizio di Villafranca, diviene maggiore generale dell’esercito dell’Italia centrale, costituito per tenere sotto controllo quelle province, sottratte arbitrariamente al Pontefice e ai legittimi sovrani (54).

Agli inizi del nuovo anno, riceve l’ordine di sbarcare in Sicilia (55) per concorrere con la sua azione all’abbattimento della dinastia borbonica, cercando di dare alla operazione una parvenza di legittimazione popolare.

Garibaldi accetta, avendo però in animo di proseguire, una volta costituito con una leva in massa un grande esercito «di popolo», fino a Roma, il suo obiettivo di sempre.

La spedizione garibaldina nell’Italia meridionale è una operazione di autentica pirateria, condotta da un gruppo di uomini armati non aventi alcuna legittimazione giuridica, contro le più elementari norme del diritto, finanziata e, sorretta dal regno sardo e dall’Inghilterra, con l’obiettivo di ribaltare le legittime istituzioni di uno Stato sovrano, annesso forzatamente dopo un artificioso «plebiscito».

«La nazione italiana, prima una nella fede e nella diversità, viene unita nell’errore, cui si accompagna l’imposizione spesso crudele di una uniformità che è piuttosto rivoluzionaria che piemontese. Cadono tutte le Case regnanti, vengono disperse tutte le classi dirigenti che hanno servito la Cristianità a diverso titolo fin nelle terre più lontane, le differenze regionali e storiche sono interamente bandite, la religione e i suoi ministri perseguitati» (56).

Un vero e proprio saccheggio segue alla invasione dell’Italia meridionale, con latrocini e profanazioni di chiese e di conventi, persecuzioni nei confronti dei vescovi e del clero, oppressione in tutti i modi della popolazione, imposizione di una legislazione del tutto estranea alle tradizioni della nazione.

E quando i contadini e tutti coloro che sono fedeli alla dinastia – bollati come «briganti» dalla storiografia ufficiale – prendono le armi per difendere la indipendenza della patria e la religione offesa, i garibaldini prima e l’esercito sardo poi soffocano nel sangue l’anelito delle popolazioni meridionali, macchiandosi di violenze e di atrocità (57).

Ma l’Unità era fatta e si era riusciti «a rendere precaria la sopravvivenza temporale della Cattedra di verità e ad abbattere molte storiche barriere elevate a difesa del costume e della morale del popolo» (58).

Alla guida della massoneria per «rieducare» gli italiani

Dopo la proclamazione del regno d’Italia, Garibaldi rimane condizionato dalla mancata conquista di Roma e dalla necessità di «plasmare» la nuova nazione.

Tra il 1861 e il 1870, il suo anticlericalismo si rivolge direttamente contro la organizzazione e la presenza della Chiesa in Italia e mira alla identificazione del principio morale dello Stato con la cultura laica, intesa in senso positivamente anticattolico.

Egli riteneva che la lacerazione tra «paese legale» e «paese reale» fosse conseguenza del radicamento della «cultura religiosa» in grande parte del popolo, alla quale occorreva opporre una «cultura popolare», fondata su una nuova concezione della religiosità, di cui però non sapeva definire le basi (59).

Mentre altri operavano a livello della minoranza «colta», Garibaldi punterà alla diffusione di fermenti anticattolici presso i ceti popolari. In forme più immediate e comunicative (60), egli intraprende e favorisce una vasta opera «educativa», anche con la capillare diffusione di opuscoli e di catechismi che attribuiscono a lui, inviato da Dio, la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le «imposture del Papa».

Sono di quegli anni le sue battaglie per assicurare pieni diritti ai protestanti, agli ebrei e ai «liberi pensatori» – al cui movimento dà pubblica adesione nel 1864 -, per secolarizzare i beni ecclesiastici, per laicizzare la istruzione elementare, per estendere ai chierici l’obbligo del servizio militare, per abolire le facoltà di teologia e diffondere la pratica della cremazione, per togliere alla Chiesa «il pascolo dei morti» (61).

Egli promuove anche una miriade di organizzazioni culturali, società operaie, leghe, fratellanze, che dovevano contribuire a trasformare il paesaggio socio-culturale dell’Italia unita. Perno di questo fronte laico e radicale doveva essere la massoneria: «Io sono di parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia […]. Io reputo i massoni eletta porzione del popolo italiano. Essi […] creino l’unità morale della Nazione. Noi non abbiamo ancora l’unità morale; che la Massoneria faccia questa, e quella sarà subito fatta» (62).

L’Italia così unificata andava inserita in un sistema che prevedeva gradualmente una federazione europea, la formazione di grandi sistemi etnico-linguistici e, infine, la unità mondiale della Umanità, definitivamente avviata alla costruzione delle «magnifiche sorti e progressive» (63).

Con questo grandioso programma, Garibaldi, già creato «maestro» a Palermo nel 1860, quindi «Primo Massone d’Italia» dal dicembre 1861, accetta l’anno seguente la carica di Gran Maestro del Supremo Consiglio Scozzese di Palermo, e, nel 1864, anche quella di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, riunito a Firenze (64). Fino al 1869, lavorerà attivamente per conferire alla massoneria la unità e un potere determinante nella vita del paese; successivamente abbandonerà ogni carica, tranne quella di Gran Maestro onorario, conferitagli a vita, ma i suoi successori saranno per lungo tempo garibaldini di stretta osservanza.

L’eroismo dei cattolici a Mentana. La breccia di Porta Pia, compimento del Risorgimento

Dopo l’impresa nell’Italia meridionale, Garibaldi non aveva abbandonato le armi. Nel 1862, tenta invano di forzare la mano al governo sulla questione di Roma, sbarcando in Calabria, ma i tempi non sono ancora maturi e viene fermato «diplomaticamente» sull’Aspromonte. Nel 1866, scoppiata la guerra austro-italo-prussiana, vuole dare il suo contributo militare all’aggressione contro l’impero asburgico. Nel 1867, infine, godendo del larvato appoggio governativo, si accinge a risolvere definitivamente la questione romana.

Per tutto l’anno percorre la penisola, aizzando l’odio contro la Chiesa, seminando calunnie sul conto del Papa e del clero, sollecitando gli uditori a rovesciare «il più schifoso dei Governi» (65), il «Governo di Satana» (66), lanciando appelli perché «quei signori preti che per tanti secoli l’hanno (Roma) goduta, deturpata, trascinata nel fango […] ci lasciassero la nostra capitale» (67).

Invia un messaggio alla V Costituente massonica, riunita a Napoli, in cui era detto: «Essendo la Massoneria il più antico propugnacolo del diritto e della coscienza, quindi il vero antagonista del Papato, che è l’antitesi del progresso e della civilizzazione; io imploro tutti i miei Fratelli di tutte le Loggie italiane ad interessarsi dei poveri Romani, oppressi dall’acerrimo nemico dell’Italia e dell’Umanità» (68).

In settembre, si reca a Ginevra per proporre al Congresso della pace un codice «universale di progresso», di cui alcuni articoli toccano la questione religiosa:

«6° Il papato, essendo la più nociva delle sette, è dichiarato decaduto.

«7° La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno dei suoi membri si obbliga di propagarla. Intendo per religione di Dio la religione della verità e della ragione. 

«8° Supplire al sacerdozio delle rivelazioni e della ignoranza col sacerdozio della scienza e della ragione» (69).

Per dare concretezza a questi programmi, in ottobre Garibaldi, alla testa di «coorti di sciagurati, ardenti di delittuoso furore» (70), invade lo Stato pontificio, mentre alcuni suoi complici cercavano di indurre i romani alla sollevazione, necessaria per chiedere l’intervento dell’esercito italiano ed eludere quello dei francesi.

I «poveri romani oppressi», tuttavia, rifiutano di insorgere, né le cose andranno diversamente nelle campagne. Gli invasori si scagliano allora contro Monterotondo, eroicamente difesa fino all’ultimo dagli zuavi pontifici; la città, che «poca simpatia s’era meritata, per il mutismo e l’indifferenza, quasi avversione, manifestata» (71), viene messa a sacco dai «liberatori». In particolare, i garibaldini se la prendono con le chiese, infrangendo le urne con le reliquie dei santi, mutilando le immagini sacre e profanando le ostie consacrate (72).

Dopo questa impresa, la offensiva rivoluzionaria langue nella campagna romana e Garibaldi deve fare i conti con la diserzione in massa dei suoi uomini, arruolatisi in maggioranza per sete di avventura o per speranza di saccheggi.

D’altra tempra saranno invece i volontari cattolici francesi della Legione d’Antibes, che rimangono fedele presidio di Roma. Lo scontro decisivo avviene a Mentana, il 3 novembre, e i garibaldini sono sbaragliati dai pontifici del generale Kanzler, appoggiati dai francesi di De Polhés, che Napoleone III era stato nuovamente costretto a inviare.

Era l’ultimo tentativo operato da Garibaldi per strappare la città di Roma al Pontefice.

Due anni dopo, aderisce all’Anticoncilio massonico, indetto a Napoli in coincidenza con l’apertura del Concilio Vaticano I, invitando i partecipanti a «rovesciare il mostro papale, edificare sulle sue rovine la ragione e il vero […], eliminare il prete-bugiardo e sacrilego insegnatore di Dio» (73).

Nel 1870, altri coglieranno la occasione per occupare Roma; si compiva il Risorgimento, attraverso quello che Adriano Lemmi, futuro Gran Maestro della massoneria, qualificherà come «il più memorabile avvenimento della storia del mondo» (74), cioè la soppressione del potere temporale dei Papi, primo passo verso l’auspicata distruzione della Chiesa cattolica.

Gli ultimi anni di vita, i più miserevoli

Dopo Porta Pia, Garibaldi, ancora non pago della nuova situazione, si batte per l’abolizione delle corporazioni religiose, la laicizzazione dell’assistenza, la eliminazione dei privilegi riconosciuti al clero dalla legge sulle guarentigie, la elevazione dell’anticlericalismo a internazionalismo laico, da contrapporre al cattolicesimo della Chiesa.

«In tal modo, la “nuova Italia” – commenta Mola – venne inserita in un “movimento” che abbracciava positivisti ed evoluzionisti, ateisti dichiarati e socialisti, le denominazioni protestantiche, gli anglicani, le sorgenti società teosofiche e giungeva sino ai vecchi cattolici, ribelli contro l’infallibilismo pontificio, e contribuì dunque a liberare l’unificazione italiana dai confini strettamente peninsulari» (75). 

Grande attenzione Garibaldi continua a dedicare alla diffusione della «religiosità laica», non solo con appelli, messaggi e interventi personali, ma anche con i suoi romanzi, un misto di falsità storiche e di pornografia, in cui le parti principali sono spesso affidate a sacerdoti e a cardinali, presentati, secondo il suo stile, nelle forme più ripugnanti e nefande.

Gli «ultimi anni di vita – scrive padre Pietro Pirri S.J. – sono anche i più miserevoli sotto l’aspetto morale. G.[aribaldi] non trovò di meglio che sfogare i suoi crucci con libri in prosa e in versi, per lo più insulsi, riboccanti di volgari ingiurie e di denigrazioni contro il clero e il Papa, e di roboanti declamazioni contro una società che aveva il torto di non pigliare sul serio i sogni della sua mente ottenebrata da vieto anticlericalismo e da grette idealità massoniche» (76).

Quanto all’attività politica, dopo il 1871 Garibaldi si trova alle prese con una nuova divisione sorta a indebolire la sinistra: l’«internazionalismo» marxista, cui egli contrapponeva un’altra più grande «internazionale», la massoneria, alla quale era fedele dagli anni di Montevideo.

Sul finire del 1871, prende pubblicamente le distanze dall’internazionalismo comunardo, pur con il rimpianto di non essersi trovato a Parigi «per propugnarvi la causa della giustizia traviata dai soliti dottrinari» e, al tempo stesso, per difendere i diritti del popolo parigino, «conculcati da un amalgama informe di monarchisti, di preti e di soldatesca degna di servirli» (77).

La Internazionale esprimeva, per Garibaldi, al più, il sogno di un abbraccio generale fra gli uomini e il modello di un’associazione anticlericale per eccellenza (78); bisognava lasciare da parte, invece, «certe massime inaccettabili, ad esempio queste: la proprietà è un furto, l’eredità è un altro furto, massime le quali, a parer mio, non meritano neppure d’esser discusse» (79). Al fido amico Pallavicino confidava: «Io non tollero all’Internazionale […] le sue velleità antropofaghe […]. Manderei in galera […] gli archimandriti della società in questione, quando questi si ostinassero nei precetti: “Guerra al capitale”; “la proprietà è un furto”; “l’eredità è un altro furto” e via dicendo. Nessuna ingerenza ho io nell’Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma» (80).

Nel 1879, Garibaldi chiama nuovamente a raccolta le forze radicali, unite prima nel Patto di Roma, poi nella Lega della Democrazia, attorno all’unica «forza sovrapartitica della terza Italia»: la massoneria. Era la premessa ai successivi tentativi dei «fratelli» Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan di unire, grazie alla libera muratoria, tutti i partiti «liberali», in antitesi ai «clericali».

Negli ultimi anni della sua vita, Garibaldi, che aveva spesso optato per una struttura massonica «aperta», al fine di facilitare la comunione dei diversi corpi massonici, torna a preferire strutture verticizzate e forme più riparate di iniziazione, chiudendo la propria carriera come Grande Ierofante del Rito Antico e Primitivo, suprema carica dei rami di Memphis e di Mizraim, ottenuta nel 1881.

Vecchio e ammalato, vuole presentarsi alle elezioni del 1880, con il programma di sempre: abolizione delle guarentigie papali, riduzione del culto cattolico ad «affare privato» dei singoli, sostituzione dell’esercito permanente con la «Nazione armata», affinché la educazione militare di massa e quella scolastica obbligatoria portassero a termine in poche generazioni la colossale «evangelizzazione» delle masse, necessaria per «fare gli italiani» come lui desiderava: liberi da «pregiudizi» e da «superstizioni», fiduciosi nella utilità delle scienze e nel Progresso, pronti a sacrificarsi per il supremo bene della Umanità.

Pochi mesi prima di morire, Garibaldi si reca a Palermo, in occasione del settecentesimo anniversario dei Vespri siciliani, e di là manda il suo ultimo messaggio: «Cacciare dall’Italia il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti, il patriarca delle menzogne che, villaneggiando sulla destra del Tevere, sguinzaglia di là i suoi cagnotti […]: il papato, infine!» (81).

Quella volta Leone XIII vuole rispondere direttamente alle accuse, rigettando il «reo disegno di accendere contro i Sommi Pontefici l’odio delle plebi: disegno, che di giorno in giorno va facendosi più chiaro e manifesto […]. Nelle accuse, di cui ragioniamo, Ci commosse oltremodo l’intrinseca malvagità della cosa in sé stessa, e il pericolo delle moltitudini men colte, maggiormente esposte a essere aggirate e tratte in inganno» (82).

Garibaldi morirà a Caprera, il 2 giugno 1882. Nel suo testamento, proclamandosi apostolo della «libertà» e del «vero», chiede la cremazione del proprio cadavere, e dichiara di volere rifiutare ogni conforto religioso: «[…] trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d’un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare» (83).

Ostinato fino all’ultimo nell’errore, Garibaldi rende infine l’anima a quel Dio che infallibilmente giudica secondo le opere e al quale è necessario rivolgere le nostre preghiere per ottenere che al più presto il Cuore Immacolato di Maria trionfi, come da lei promesso a Fatima (84), sulla Rivoluzione.

Francesco Pappalardo

Note:

(1) GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 8.

(2) Mi riferisco non solo alle azioni compiute dallo stesso Garibaldi nel corso della sua vita, ma anche a quelle animate da «spirito garibaldino» – da Domokos, nel 1897, alle Argonne, nel 1914-15 -, o semplicemente ispirate al suo nome – dalla guerra di Spagna alla Resistenza, alle elezioni del 1948.

(3) BETTINO CRAXI, «Presidente, scrivici tu la storia», in Corriere della Sera, 3-6-1982.

(4) Intervista a B. Craxi, in Historia, anno 26, n. 289, marzo 1982, p. 40.

(5) GIOVANNI SPADOLINI, Discorso a Caprera, in Corriere della Sera, 24-5-1982. È interessante notare come nella ricerca di questa «nuova unità morale» siano stati sfruttati anche i recenti campionati mondiali di calcio: la vittoria dell’Italia è stata giudicata, infatti, «politicamente rilevante», perché «rappresenta il cemento del Paese, uno spirito di unità nazionale nell’esplosione dei tricolori» (IDEM, ibid., 12-7-1982).

(6) Intervista a G. Spadolini, in Historia, cit., p. 45.

(7) Analogamente si era riscoperto Proudhon, quando si voleva accreditare l’idea di un marxismo libero da ogni dogmatismo (cfr. G. CANTONI, La «lezione italiana», Cristianità, Piacenza 1980, pp. 111-116), ed è stato rivalutato Filippo Turati, quando si è rilanciato il riformismo degli anni Ottanta (sulle «riforme», cfr. IDEM, Il «programma socialista» contro il popolo italiano, in Cristianità, anno X, n. 84, aprile 1982).

(8) GAETANO ARFÈ, Turati ebbe ragione nel ‘19 e nel ‘21 perché iniziò ad averla a Genova, in Avanti!, 1-4-1982.

(9) Cit. in G. SPADOLINI, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ‘98, Mondadori, Milano 1976, pp. 38 e 37.

(10) LEONE XIII, Enciclica Au milieu des sollicitudes, del 16-2-1982, in ASS, vol. XXIV, p. 519.

(11) GIUSEPPE GARIBALDI, Memorie, Rizzoli, Milano 1982, p. 47. Questa recente edizione, come altre precedenti, non va esente da tagli, eseguiti «per contenere il testo in una misura editorialmente accettabile». In effetti, sino dalla prima edizione delle Memorie non si contano le amputazioni, le omissioni e le deformazioni del testo. Anche la edizione nazionale degli scritti garibaldini, pubblicati tra il 1932 e il 1937, ha lasciato cadere i documenti che meglio illustravano i contenuti dell’anticlericalismo di Garibaldi, così come ne ha sfocato, rendendola indecifrabile, l’appartenenza alla massoneria.

(12) Ibid., p. 50.

(13) IDEM, I Mille, Cappelli, Bologna 1933, p. 340.

(14) Cit. in PIETRO BALAN, Storia d’Italia, Paolo Toschi, Modena 1898, vol. X, p. 428.

(15) G. GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, vol. III, Cappelli, Bologna 1937, p. 334.

(16) «Ogni conquista della scienza è la morte di un errore; ogni conquista della civiltà è la morte di un privilegio» (ibid., p. 300).

(17) Ibid., p. 154. I «sacerdoti del vero», i «veri ministri di Dio», erano gli scienziati, che avevano il compito di facilitare «il progresso della scienza e dell’Umanità verso la perfezione possibile» (ibid., p. 334).

(18) IDEM, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, raccolti su autografi, stampe e manoscritti da Domenico Ciampoli, Voghera, Roma 1907, p. 420.

(19) Ibid., p. 899. 

(20) Come nei confronti dell’Eucarestia, ridotta al «modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi in un Closet qualunque. Sacrilegio, che prova l’imbecillità degli uomini» (ibid., p. 523); o sull’infallibilità del Papa, «povero vecchio che conformandosi alle leggi inesorabili della natura tra poco pagherà come noi tutti ad essa il suo tributo e sarà ben difficile distinguere il nauseante suo teschio da quello di qualunque mendico» (IDEM, Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol. III, p. 154).

(21) Cit. in ROSARIO F. ESPOSITO S.S.P., La Massoneria e l’Italia dal 1800 ai nostri giorni, 5ª ed. riveduta e aggiornata, Edizioni Paoline, Roma 1979, p. 123. Il libro è espressione «cattolica» della neoapologetica massonica.

(22) Cit. in ENRICO DELASSUS, Il problema dell’ora presente, Cristianità, Piacenza 1977, vol. I, p. 585. Pio VII, con l’enciclica Ecclesiam a Jesu Christo del 13-9-1821, condannerà la carboneria quale setta contraria alla religione cattolica, comminando la scomunica agli affiliati e ai favoreggiatori (cfr. Tutte le Encicliche dei Sommi Pontefici, 4ª ed., Dall’Oglio, Milano 1964, pp. 149-154).

(23) GIUSEPPE MAZZINI, Scritti editi ed inediti, Galeati, Imola, edizione nazionale iniziata nel 1909 e proseguita fino al dopoguerra, vol. I, p. 270.

(24) Ibid., vol. V, p. 55.

(25) Ibid., vol. XIV, p. 99.

(26) Pio IX, Allocuzione al Concistoro, del 12-3-1877, cit. in P. BALAN, Continuazione della storia universale della Chiesa cattolica dell’abate Rohrbacher, Marietti, Torino 1884-1886, vol. III, p. 868.

(27) G. GARIBALDI, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, cit., p. 664. Anche in età avanzata, dopo la sua adesione alla Internazionale, Garibaldi continuerà a rifiutare la concezione socialistica della società.

(28) Cit. in E. DELASSUS, op. cit., vol. I, p. 234

(29) La rivolta era fomentata dalla massoneria: cfr. CARLO GENTILE, Giuseppe Garibaldi. Il gran maestro dell’umanità, Bastogi, Foggia 1981, p. 152. Il libro, dedicato ai «liberi muratori della terra», è l’apologia di Garibaldi massone.

(30) G. GARIBALDI, Memorie, cit., p. 70.

(31) ALDO VALORI, Garibaldi, UTET, Torino 1941, p. 29. Ogni volta che sbarcavano, i marinai «si abbandonavano a razzie private: ne facevano le spese polli, vacche e donne» (INDRO MONTANELLI e MARCO NOZZA, Garibaldi, Rizzoli, Milano 1968, p. 106).

(32) A. VALORI, op. cit., p. 23. Com’è diversa questa immagine da quella tramandataci dai libri di scuola su questo «cavaliere antico senza macchia e senza paura»! (messaggio del capo dello Stato alle camere per il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi, in Corriere della Sera, 3-6-1982).

(33) G. GARIBALDI, Memorie, cit., p. 85.

(34) Ibid., p. 86.

(35) Il Grande Oriente francese non aveva il riconoscimento della Gran Loggia Madre d’Inghilterra, ma nonostante ciò Garibaldi sarà in seguito affiliato e visiterà logge di obbedienza anglo-americana a Londra e a New York. Nelle diverse edizioni delle sue Memorie, Garibaldi non fa cenno alcuno alla iniziazione, né alle numerose cariche ricoperte nella massoneria italiana. Il riserbo del nizzardo, secondo Aldo Alessandro Mola, curatore di un’antologia critica degli scritti garibaldini, in cui esalta la figura di Garibaldi massone e anticlericale, «conferma la percezione della sacralità dell’iniziazione massonica, escludente la sua propalazione» (ALDO ALESSANDRO MOLA, Garibaldi vivo, Mazzotta, Torino 1982, p. 234, nota 2).

(36) Era la Legione italiana, le cui «imprese, suscitarono biasimo anche nell’ammiraglio inglese lord Howden, un alleato (cfr. I. MONTANELLI e M. NOZZA, op. cit., p. 148).

(37) G. GARIBALDI, Memorie, cit., p. 109.

(38) Ancora oggi sopravvive il mito di Garibaldi «liberatore», confermato da opuscoli e da manuali marxisti circolanti in America Latina.

(39) Istruzione segreta permanente data ai membri dell’Alta Vendita, in E. DELASSUS, op. cit., vol. I, p. 586.

(40) L’offerta della spada a Pio IX è intesa in chiave anticlericale, perché fatta sulla «convinzione che Papa Mastai mirasse alla “renovatio ecclesiae”», nel senso auspicato dai rivoluzionari (A. A. MOLA, op. cit., p. 280). Del resto, il 7 agosto 1847, Garibaldi aveva messo le mani avanti scrivendo a Eugenio Belluomini di essere disposto a «servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci dasse del pane». (Epistolario, vol. I (1834-48), Roma 1973. p. 239).

(41) Cfr. I. MONTANELLI e M. NOZZA, op. cit., p. 185.

(42) «I legionari repressero, ma al solito loro modo che non permetteva alla gente del luogo di capire bene chi fossero i briganti. Ad andarne di mezzo furono soprattutto i conventi di frati e di monache» (ibid., p. 203).

(43) «La rapina della civile sovranità – confermerà Leone XIII cinquant’anni dopo -fu compiuta per abbattere a poco a poco la stessa spirituale potestà del Capo della Chiesa, (lettera apostolica Pervenuti all’anno vigesimoquinto, del 19-3-1902, in ASS, vol. XXXIV, p. 528). Il mito della Terza Roma, «rigenerata» e «riformata» perché svincolata dalla sovranità civile dei Papi, la Roma della «razionalità» e della «laicità», erede della tradizione dell’urbe repubblicana, ha una importanza fondamentale nel pensiero di Garibaldi, che si impegnerà allo stremo perché essa sia per sempre «emancipata dall’idolatria e spinta col suo culto del Vero e della giustizia verso la fratellanza universale» (G. GARIBALDI, I Mille, cit., p. 5).

(44) Cit. in P. BALAN, Continuazione della storia universale della Chiesa cattolica dell’abate Rohrbacher; cit., vol. I, p. 583.

(45) Cit. in I. MONTANELLI e M. NOZZA, op. cit., p. 210. Le altre strofe erano: «Par vos-mains de la tyrannie / L’étendard sanglant est sauvé / Entendez vous dans la campagne / Beugler ces féroces prélats? / Ils viennent diriger vos bras / Fiers assassins de la Romagne / Aux arms, sacristains! Forms vos bataillons / Marchons! Le Pape est roi du droit de nos canons!, (cit. in Historia, cit., p. 120).

(46) Barnabita, uscito dall’ordine nel 1848, si dedicherà successivamente alla predicazione antipapale e al tentativo di fondare una «Chiesa cristiana» estranea alla influenza della Chiesa cattolica. Suo degno compare era quell’Ugo Bassi, anche lui barnabita, che sulla tomba di Luciano Manara, a Roma, pronuncerà «non l’orazione funebre, ma un’atroce, piuttosto, e violentissima diatriba contro il Papa e il clero» (P. BALAN, Storia d’Italia, cit., vol. X, p. 37).

(47) Ibid., p. 17. È significativo che oggi si giudichi la repubblica romana «il momento più alto del Risorgimento»! (G. SPADOLINI, Discorso di Velletri, in Corriere della sera, 24-5-1982).

(48) G. GARIBALDI, Memorie, cit., p. 178.

(49) GIACINTO DE SIVO, Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964, vol. I, p. 337. Lo stesso Garibaldi ammetteva che «i gruppi di disertori si scioglievan sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie», scendendo «ad atti osceni e crudeli con gli abitanti» (G. GARIBALDI, Memorie autobiografiche, Barbera, Firenze 1907, p. 244. La differente citazione è dovuta al fatto che la frase riportata risulta omessa nella edizione più recente).

(50) G. GARIBALDI, Memorie, cit., p. 179. Garibaldi, che aveva finalmente compreso l’isolamento della minoranza risorgimentale rispetto alla generalità del paese, si propone da allora la «catechizzazione» dei contadini «dominati dal prete, sorretti da un governo immorale, […] sempre disposti a tradire la causa nazionale» (IDEM, Le memorie di Garibaldi, nella redazione definitiva del 1872, Cappelli, Bologna 1932, vol. II, p. 301). 

(51) «Gran Maestro in pectore del Grande Oriente italiano»: così è definito in A. A. MOLA, Storia della Massoneria italiana dall’Unità alla Repubblica, Bompiani, Milano 1976, p. 14.

(52) «All’andata trasportava guano […], al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma, un lavoretto un po’ da negriero» (GIORGIO CANDELORO, intervista a la Repubblica del 20-1-1082).

(53) G. GARIBALDI, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, cit., p. 664.

(54) Il 26 marzo 1860, Pio IX lancia la scomunica maggiore contro tutti coloro che, in qualunque modo, avessero cooperato alla usurpazione, ribadendo, con la lettera apostolica Cum catholica Ecclesia, del 26-3-1860, la necessità del principato civile del Pontefice.

(55) Nel gennaio del 1859, Garibaldi aveva scritto a Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale, prospettando la ipotesi di «promuovere movimenti di popolo», cominciando però «con qualche cosa di organizzato per poter dirigere la corrente come si deve. Per ciò combinerete e darete ordini» (Epistolario, vol. IV, Roma 1982, p. 4).

(56) G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., p. 14.

(57) Per una storia più realistica della conquista del Meridione e delle sue conseguenze, si possono consultare con diverso profitto i seguenti testi: G. DE SIVO, Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861, cit.; CARLO ALIANELLO, La conquista del Sud, Rusconi, Milano 1972; PIER GIUSTO JAEGER, Francesco II di Borbone. L’ultimo re di Napoli, Mondadori, Milano 1982.

(58) G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., p. 14.

(59) In una lettera a Quirico Filopanti, filosofo, alto dignitario massonico e deputato, Garibaldi scriveva: «Troviamo una media proporzione tra deismo e materialismo e chiamiamola: Vero […]. Il Credo può essere designato colla formula: studio del Vero o studio dell’Infinito. Interpreti, la ragione e la scienza. Ripeto: accenno e non insegno. E lascio a voi la cura di stabilire una formula» (Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, cit., pp. 586-587).

(60) Nella indulgenza di Garibaldi verso talune manifestazioni di «devozione laica» – come la celebrazione non sacerdotale di alcuni sacramenti, quali il battesimo e il matrimonio, e la diffusione della sua immagine di «redentore» -, Mola coglie un intento politico-pedagogico, mirante a una «inculturazione che, machiavellicamente, utilizzava gli strumenti di comunicazione adatti agli italiani del tempo suo» (A. A. MOLA, Garibaldi vivo, cit., p. 283, nota 5).

(61) G. GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol. II (1862-67), Cappelli, Bologna 1935, p. 400.

(62) Ibid., pp. 385-386.

(63) GIACOMO LEOPARDI, La ginestra o il fiore del deserto, V. 51. A questo fine, Garibaldi reputava necessaria l’adozione di una unica lingua e di una religione universale, liberata dai «ceppi» del dogmatismo e risultante da una «palingenesi» del cristianesimo. 

(64) «Cotesta nomina a Gran Maestro è la più solenne interpretazione delle tendenze dell’animo mio, de’ miei voti, dello scopo cui ho mirato in tutta la mia vita» (A. A. MOLA, Garibaldi vivo, cit., p. 240).

(65) G. GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol. II, pp. 433-434.

(66) Ibid., vol. III, p. 19.

(67) Cit. in R. F. ESPOSITO S.S.P., op. cit., p. 124.

(68) G. GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol. II, p. 397.

(69) Ibid. p. 411.

(70) PIO IX, Enciclica Respicientes, in Tutte le Encicliche dei Sommi Pontefici, cit., p. 294.

(71) G. GARIBALDI, Memorie, cit., p. 329.

(72) Cfr., P. BALAN, Storia d’Italia, cit., vol. X, p. 463.

(73) Cit. in R. F. ESPOSITO S.S.P., op. cit., pp. 125-126. Circa la discussa lettera A’ miei amici e fratelli d’armi, dell’11 ottobre 1869, pubblicata in Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, cit., pp. 523-525, in cui Garibaldi definisce Pio IX «un metro cubo di letame», lo stesso Mola è orientato per la sua autenticità (cfr. A. A. MOLA, Garibaldi vivo, cit. p. 284, nota 11).

(74) Cit. in R. F. ESPOSITO S.S.P., op. cit., p. 102.

(75) A. A. MOLA, op. cit., p. 282.

(76) PIETRO PIRRI S.J., Voce Garibaldi, in Enciclopedia Cattolica, vol. V, p. 1942. 

(77) G. GARIBALDI, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, cit., p. 599.

(78) «L’internazionale non vuole preti, né per conseguenza menzogna», ibid., p. 585.

(79) Ibidem.

(80) Ibid., p. 599.

(81) Ibid., p. 880.

(82) LEONE XIII, Lettera ai vescovi di Sicilia, Sicut multa, del 22-4-1882, in Atti di Leone XIII, Tipografia dell’Immacolata, Mondovì 1902-1903, p. 123.

(83) G. GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol. III (1867-1882), p. 316.

(84) Cfr. ANTONIO AUGUSTO BORELLI MACHADO, Le apparizioni e il messaggio di Fatima, 2ª ed. it., Cristianità, Piacenza 1982, p. 37.

L'articolo è interamente leggibile sulla seguente pagina che ne è proprietaria:

 https://alleanzacattolica.org/giuseppe-garibaldi-una-spada-contro-la-chiesa-e-la-civilta-cristiana/

Il blog ci tiene a ricordare: se i proprietari, malgrado l'attribuzione autoriale, abbiano a male e ritengano illegittimo l'uso che del loro lavoro è fatto in questa pagina, avvisino la redazione e sarà nostra premura rimuovere gli articoli suddetti. IndagineCattolica non ha intenzione di sfruttare opere altrui a proprio fine, ma solo la condivisione di articoli utili alla formazione dei lettori sull'argomento.

Timor Dissolvi

 

Diceva un grand'uomo spinto da viva fede, uno dei nostri padri, tempo orsono: 

Coarctor autem e duobus: desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo, multo magis melius: permanere autem in carne, necessarium propter vos...” [1]

Non fu sua esclusiva l'uso di un simile linguaggio: è difatti entrato nell'uso corrente, attraverso l'applicazione che ne fecero i grandi mistici cristiani, il termine cupio dissolvi. Tradurlo è difficile, seppure non impossibile. Con quel bel modo di giocare con le parole proprio del latino, questa espressione infatti rimanda ad un desiderio vivo e profondo di dissolversi, di vedersi disciolto come sale in un bicchiere d'acqua ed annullato dei propri personali desideri e persino della propria vita.

I "Nottambuli" di Edward Hopper: la solitudine in una grande città

Nell'antichità, un'espressione simile non poteva che essere associata alla disperazione di un vinto; quest'affermazione avrebbe accompagnato senza dubbio i lamenti di un uomo sconfitto, senza più forza per combattere e senza più speranza per ritentare. L'ultima volontà del sopraffatto appare allora un atto di vergogna simile al desiderio di essere distrutto lentamente, senza fretta, annullato nella propria incapacità.

Ben diversa accezione acquisisce questa espressione in ambito cristiano, e particolarmente con i grandi santi e mistici della nostra fede. La citazione in apertura -dalla quale senza dubbio il cupio dissolvi ha ricevuto grande popolarità e diffusione- appartiene infatti allo stesso San Paolo, l'apostolo delle genti, che tutto potremmo considerare ma non certo uno sconfitto.

Egli fu vinto, certo, ma vinto da Cristo del quale seppe riconoscere la signoria e per il quale giunse a dire di preferire d'esser “sciolto dal corpo” per sperimentare la vita dei redenti piuttosto che rimanere in vita, a compiere il suo magistero di evangelizzazione. Paolo certo scelse il secondo, mosso da viva carità e dal desiderio di far conoscere a quanti più uomini la lieta novella del Vangelo; certo neppure dimenticò mai la propria destinazione finale, tanto preziosa ed ambita, per la quale potè infine sospirare: 

Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione...”

Desiderio di vedersi dissolvere per Cristo ed in Cristo, questo era ed è il significato più profondo dell'anelito paolino e caro alla mistica cristiana: il grido dell'arreso, sì, ma dell'arreso innanzi al Mistero fattosi carne; il gemito del vinto, certo, ma del vinto dalla potenza di Dio. Innanzi a queste la nostra vita perde ogni significato e valore, tanta la sua piccolezza ma, innanzi a tali prodigi d'amore divino verso il nulla umano, questa si eleva ancor più in tutta la sua fulgida dignità.

Il più grande desiderio dei santi fu proprio questo: abbandonare le spoglie mortali, varcare quella soglia tanto attesa, vedere il giorno caro e lasciarsi alle spalle le insipienze del mondo. Annullare sé stessi per nascere in Cristo, morire nella carne per nascere dalla sorgente della vita stessa.

E non dovremmo ritenere certe affermazioni consone solo ad una certa novellistica monastica e conventuale, quasi che non ci riguardi: ogni cristiano è chiamato a farsi unico assieme a Cristo, a fondere l'intero e più profondo proprio essere con l'Essere sommo e perfetto.

A tal proposito, già nel secondo secolo, scriveva un'anonimo autore nell'Epistola a Diogneto:

I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere...Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile...Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita [...]”

Se ne deduce come l'annichilire sé stessi persista e sussista unicamente in virtù -e quale mezzo- di far posto a Dio e, così avendo imparato a morire, vivere per davvero, accrescersi più di quanto mai si riesca a fare senza questa “morte dell'io”, tanto autentica quanto indispensabile per la vera ascesi. In questo procedimento ormai non sussiste più da tempo il timor dissolvi, la paura della morte: essa viene vinta da un costante processo di maturazione spirituale e fede.

Eppure, proprio del timor dissolvi vorrei parlare: un'espressione artificiale, un autentico contrario della cupio, del desiderio d'esser dissolto.

Il timore della dissoluzione è la paura propria ad una società che teme la morte perchè ha perso la strada, il senso della vita stessa. Non sussiste infatti paura della morte nell'uomo che ritiene la morte come la porta attraverso la quale è necessario passare per ritrovare Dio.

Paradossalmente, la paura della morte è ancora più presente -seppure mascherata, repressa, zittita- nella società odierna, dominata dall'ateismo nichilista e materialista, piuttosto che nelle società antiche. Laddove un tempo -ed anche oggi, per noi- la morte non era che una soglia, oggi è semplicemente la fine. Un muro inesorabile, alto ed insidioso, insuperabile, contro il quale rovinano e si disgregano i nostri corpi, sospinti dalle mareggiate del tempo, verso la dissoluzione finale.

Una dissoluzione senza via d'uscita, senza senso, fine a sé stessa. Una dissoluzione non necessaria, non utile ma solo che, per uno strano caso, si verifica. L'uomo è ridotto a puro detrito sulla spiaggia dell'Essere che, essendo stato per un momento, subito viene richiamato dal non-essere.

Appaiono allora anacronistiche (!) per la modernità le considerazioni di San Paolo che non solo non fugge, bensì cerca di propria volontà l'unione con Dio, anche quando questa significa dover passare attraverso la morte. Oggi, la morte si fugge e, paradossalmente, la morte ha in pegno la stessa società priva di senso, valori, fede. Quel limite invalicabile che essa è non solo si teme, ma anche si evita di nominarlo come per allontanarne la noi l'ombra spettrale: nulla di più lontano dalla spiritualità cristiana e dall'esempio dei martiri, che spesso seppero trovare nella morte una grande consolazione, uno scorcio al Mistero che li attendeva.

E così, se in contesto pagano il cupio dissolvi era proprio dell'eroe sconfitto e schiantato dal fato avverso e in quello cristiano era indice d'impazienza di martiri e santi “arresi” a Dio in attesa della vita eterna, oggi registriamo una regressione di significato, un involuzione: “desidero esser dissolto” non è più il lamento d'eroi o santi o martiri, ma dell'uomo del moderno evo, tout court. Se l'eroe antico, seppur in contesto pagano, invocava la propria distruzione, lo faceva tenendo bene a mente gli ideali che non aveva saputo incarnare, l'onore che non aveva saputo conservare o i cari, la patria, che non era stato in grado di difendere. L'uomo moderno, né eroe né vincente, perde contro sé stesso e la visione nichilista che abbraccia, la visione della disperazione. Perde a causa propria. Così facendo, invoca la distruzione del proprio essere nella banalità, nell'odio verso la vita che crede priva di senso ed il dolore, nell'insipienza del nulla.

Morire, invocare la morte, diventa causa e fine di sé stesso.

E se il santo elevava in cielo questo controverso grido: “desidero esser dissolto!”, certo lo diceva per poi aggiungere: “perchè il mio essere, libero di questo fardello mortale, possa congiungersi a Te, o Dio, e possa in eterno lodarTi”. Questo, si direbbe, il contrario d'oggi. Il moderno eroe laico ha imparato che non c'è nessuno, “al di là”: appare allora inutile qualunque invocazione, qualunque preghiera, prece, supplica. Egli si appiglia allora ai valori che guidarono la sua vita? Può farlo, ma ben ricordando che una coerente visione nichilista non ammette l'esistenza di valori eterni, oggettivi. In poche parole, per questo novello eroe moderno, non resta che disperarsi ed invocare, appunto, una dissoluzione che possa dargli il silenzio dei sensi, del pensiero, della coscienza.

Se il salto del martire era un coraggioso salto nel senso, nella vita, in Dio, oggi il salto del moderno è il salto nel nulla, nel mistero (totalmente materiale e non trascendente) dell'esistenza.

Come sarebbe infatti lottare per una vita intera per valori ritenuti umani e giusti, per poi, nei momenti di lucidità, realizzare che non sono eterni, che tra una, due generazioni verranno uomini che chiameranno giusto ciò che per me era sbagliato?

Laddove l'eroe antico si faceva nulla, si annichiliva innanzi ai valori che non aveva saputo servire o al fato ostile e laddove il santo si annullava per aprirsi a Dio, l'uomo moderno si annulla per il semplice fatto di annullarsi. Egli concepisce come implausibile l'idea di Dio, logicamente conseguente l'impossibilità di leggi morali eterne e di uno scopo ed un senso propri alla vita.

D'altrode è proprio questo il senso del nichilismo: “per nichilismo s’intende – specie oggi, in un’epoca in cui esso pare contrassegnare l’intera civiltà occidentale e talora essere il suo destino – [...]: un pensiero che nega l’esistenza di qualsiasi valore e del principio stesso di valore, proclamando che la vita non si fonda su nulla e non ha senso cercarne il significato.” [3]

Timor dissolvi allora -il timore della morte, del vuoto, del nulla- è, paradossalmente e come detto, il prodotto di una società materialistica fondata principalmente sull'accettata (spesso fin troppo a cuor leggero, direi incoscientemente) idea che l'universo sia indifferente all'uomo, che sia privo di valori morali oggettivi e della stessa presenza di Dio.

E, effettivamente, di fede moderna si tratta: non una risposta risolutiva alle grandi domande della vita -sul senso, su Dio, sulla morale...- ma una grande domanda, un punto interrogativo, il dubbio di una società che ha rigettato Dio ma alla quale, quando guarda al futuro, è giustamente precluso qualunque disegno intelligibile e sensato (prerogative del mondo concepito e governato dall'Intelligenza di Dio) per l'umanità così svestita, nuda e miserevole.

C'è poi chi sostiene, tentando di convivere con questa fede e le sue conseguenze:

“Nichilismo è sentire che al mondo non c’è nulla per cui valga la pena essere pessimisti.” [4]

E come metterlo in dubbio? 

Certo è vero perchè non c'è neppure nulla per cui essere ottimisti. In sostanza, ogni scelta è indifferente. Ogni emozione, una vacua voce persa nella vastità del nulla. Nessuno risponde, tanto vale non chiedere. Ma l'uomo, non è forse nato per chiedere? Non conserva forse in sé quei semi insopprimibili di una natura di esploratore, costantemente sulle tracce della verità? Che siano lecita convinzione o fatua leggerezza ad aver mosso le considerazioni dei nichilisti, certo entrambe non sono metro di validità tale da imporre all'uomo ed al suo spirito, quasi con un solenne e brusco divieto, la ricerca del vero, del senso, dell'essere in quanto esistente; neppure sono licenza d'osservare dall'alto in basso quei pochi che han mantenuto la fede e la ricerca, quali tardi epigoni restii ad abbandonare convinzioni ormai accertate per errate.

La Redazione


[1] San Paolo nella Lettera ai Filippesi, 1, 23-24: “Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne.”

[2] 2 Timoteo 4; 7-9

[3] Claudio Magris

[4] Giovanni Soriano

Il Rasoio di Occam e l'abuso anti-teista

Frequentemente, a sostegno della visione atea del mondo, viene usato il cosidetto “rasoio si Occam”. Questo strumento logico, codificato nella sua formulazione originaria dal teologo inglese Guglielmo da Ockham, durante il medioevo, fa propendere chi lo usa a reputare maggiormente verace una conclusione che riesca a spiegare una teoria nel modo più semplice ed economico possibile, ossia introducendo il minor numero possibile di elementi volti a spiegare ciò che accade.

Così, se il mondo può esser compreso in una mera prospettiva materialista e naturalista, allora l'idea di Dio appare dispendiosa da formulare: è più probabile che il mondo esista e sussista senza bisogno della sua spinta esterna, non verificabile.

Diversi sono i punti critici di questa obiezione, ben evidenziati nell'articolo che vi propongo qui sotto.

Il rasoio di Occam pare aver perso il suo filo, sopratutto al giorno d'oggi: se nel passato la teoria più semplice era ritenuta anche la più veritiera, così non può più essere sostenuto oggigiorno. Con l'evolversi delle scienze ed il comparire di questioni complesse, la banalizzazione non sembra più aiutare e la semplificazione risulta spesso impossibile: numerose le volte, poi, in cui la teoria più corretta e verificata risulta essere proprio quella meno semplice.

Impossibile, poi, credere di poter “tagliare via” Dio dall'indagine del mondo sulla base delle poche conoscenze scientifiche che possediamo, malgrado siano più di quelle del passato: nell'ottocento positivista la fisica sembrava aver concluso il suo viaggio, di essere in grado di spiegare l'universo sulla base di soli funzionamenti deterministici; con l'avvento di Maxwell, Einstein e molti altri questa visione si incrinò.

Impossibile infine rifiutare un'ipotesi di cui non conosciamo la natura più intrinseca, qual'è Dio stesso: tuttavia, persiste una sbagliata concezione di questo strumento, piegato spesso ad un vero e proprio abuso, dove sembra più facile chiamare in causa il Rasoio piuttosto che applicarlo per davvero.

Buona lettura!

                                                 La Redazione

Il frate francescano Guglielmo da Ockham

I nostri avversari che professano idee materialistiche usano opporre alle nostre argomentazioni il cosiddetto Rasoio di Occam, uno strumento logico escogitato dal teologo inglese Guglielmo da Ockham, 1288-1349), dell’Ordine di Francesco d’Assisi. Questo principio logico può essere formulato in diversi modi, che elenchiamo nel seguito:

1) A parità di fattori, la spiegazione più semplice è da preferire
2) Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (Gli elementi non devono essere moltiplicati più del necessario)
3) Pluralitas non est ponenda sine necessitate (La pluralità non deve essere considerata se non è necessaria)
4) Frustra fit per multa quod fieri potest per pauciora (È inutile fare con più cose ciò che può essere fatto con meno cose)

In altre parole, se di un evento esistono diverse spiegazioni possibili, non deve essere scelta quella più più ingenua o che affiora alla mente in modo spontaneo, bensì quella più ragionevolmente vera e che non richiede inutili complicazioni tramite aggiunta di altri elementi causali. Si tratta di una forma di economia di pensiero: se per spiegare un fenomeno non occorre postulare un determinato ente, è ragionevole non postularlo, essendo logico scegliere la soluzione più plausibile e semplice. Ad esempio, se si può descrivere il meccanismo di formazione dei temporali a partire dalle caratteristiche delle nubi e dell’atmosfera, questo è preferibile all’idea di ammettere l’esistenza del dio Thor dalla barba rossa che scaglia folgori con un martello chiamato Mjöllnir.

Il francescano inglese ha sistemato logicamente qualcosa che era già noto al pensiero scientifico del Medioevo, impostando la sua critica sulla concezione volontarista della Creazione. In contrasto con Tommaso d’Aquino, che riteneva il mondo creato da Dio sulla base di volontà e intelletto, Guglielmo di Ockham credeva che la Creazione fosse unicamente un atto di volontà. Per questo motivo egli ha enunciato il Rasoio, per eliminare i concetti relativi a regole e leggi naturali, come ad esempio la Sostanza e gli Universali.

I molti usi illegittimi del Rasoio di Occam

Naturalmente, Frate Guglielmo da Ockham non sarebbe stato affatto contento dell’uso che i moderni fanno del suo strumento logico. Infatti esso viene applicato in modo assolutamente dissennato, senza nemmeno operare un controllo sull’effettiva necessità della sua applicazione. Esso viene utilizzato come metodo per risolvere qualsiasi questione filosofica ritenuta insolubile. Esiste Dio? Non esiste, dicono i materialisti, perché non serve: il Rasoio di Occam dimostra che non è necessaria la sua esistenza per spiegare il mondo. Esiste l’anima immortale? Esiste lo Spirito? Non esistono queste cose, dicono i materialisti, perché sono del tutto inutili: il Rasoio di Occam dimostra che un corpo funziona bene anche senza qualcosa di metafisico che lo faccia muovere.

Ad essere criticabile è proprio l’uso disinvolto del Rasoio di Occam, che dimostra la pochezza intellettuale di chi lo compie. Infatti di questi tempi esso è interpretato falsamente ed enunciato in questo modo:

1) La spiegazione più semplice è da preferire
2) Entia non sunt multiplicanda (Gli elementi non devono essere moltiplicati)
3) Pluralitas non est ponenda (La pluralità non deve essere considerata)
4) Frustra fit per multa aliquid (È inutile fare qualsiasi cosa con più cose)

Come si può osservare, è stato tralasciato qualcosa di fondamentale. Per quanto Frate Guglielmo sia stato chiaro ed abbia usato un linguaggio comprensibile, questo è ciò che di lui è arrivato ai contemporanei. Non viene compiuta quindi alcuna verifica sull’effettiva necessità di applicazione del Rasoio. Se si ignora il grado di complessità dell’argomento che si sta trattando, si corre il concreto rischio di eliminare informazioni cruciali.

Alcuni esempi dallo studio delle lingue

Nella lingua olandese esistono due interessanti parole: “Schande”, che significa “vergogna”, e “Schandaal”, che significa “scandalo”. Applicando il Rasoio di Occam senza disporre di altre informazioni, è naturale dedurre che “Schandaal” sia un derivato di “Schande”, che le due parole siano cioè imparentate tra loro. Questo non è tuttavia vero. Mentre “Schande” è un termine di origine germanica, “Schandaal” è derivato dal Greco del Nuovo Testamento “skandalon”, che significa “pietra d’inciampo”. Questo è un esempio di uso errato del Rasoio di Occam.

Nella lingua tedesca la parola “arm” significa “povero”. Così si dice “Dieser Mensch ist arm”, che significa “Quest’uomo è povero”. Orbene, in alcuni dialetti della stessa lingua esiste anche la parola “Armosen”, che significa “elemosina”, e che nell’idioma standard suona invece “Almosen”. Stando ai materialisti, se si considerasse soltanto l’ambito di un dialetto che ha “Armosen”, chi oserebbe negare che le due parole abbiano la stessa origine, visto che indicano entrambe qualcosa che ha a che fare con il concetto di povertà? Semplicità vorrebbe che questo “Armosen” sia un figlio naturale di “arm”, così come “Spirituosen”, che significa “alcolici” è un figlio naturale di “Spirit”, che significa “alcool”. Stesso suffisso, stessa procedura di derivazione: non possono esserci dubbi. Invece non è così, come già risulta evidente considerando la variante “Almosen”. È dimostrato che queste parole sono derivazioni del Greco del Nuovo Testamento “eleēmosynē”, che significa “questua”, e che deriva dal verbo ellenico “eleéō”, che significa “ho compassione”.

Esiste in Messico una città che è chiamata Cuernavaca. Nulla di più naturale che vedervi una derivazione dalle parole spagnole “cuerno”, ossia “corno”, e “vaca”, ossia “vacca”, entrambe di chiara origine romanza e derivate dal Latino “cornu” e “vacca” rispettivamente. Per chi considera la lingua spagnola parlata in Messico come un sistema isolato, questa etimologia sarà ineccepibile. Invece il toponimo deriva dal Nahuatl “Cuauhnahuac”, che significa “Vicino agli Alberi”: nella lingua parlata dagli Aztechi “cuahuitl” significa “legno” e “albero”, mentre “nahuac” è un suffisso che indica il concetto di vicinanza. Una persona che ignora la lingua Nahuatl, applicando il Rasoio di Occam in modo improprio e superficiale, arriva senza dubbio a proferire il falso.

Esite una tradizione radicata quanto falsa che attribuisce ai Rom e ai Sinti origini egiziane. Per questo tali genti hanno ricevuto il nome di Gitani, ossia Egiziani. Orbene, il termine che essi usano per designare l’uomo della propria etnia è “rom”. Sapendo che nella lingua Copta, che è erede dell’Antico Egizio, uomo si dice “rōme”, un osservatore superficiale potrebbe essere tentato di ritenere la consonanza significativa, e applicando il Rasoio di Occam ritenere inutile ogni ulteriore discussione. Ma noi sappiamo, conoscendo qualcosa di più del lessico della lingua dei Rom e di quella Copta, che il modo simile di indicare l’uomo è frutto di mera coincidenza. Basti allo scopo un breve elenco. In Romani “pani” significa “acqua”, che in Copto è “mou”. In Romani “iag” significa “fuoco”, che in Copto è “krōm”. In Romani “phu” significa “terra”, che in Copto è “to”. In Romani “kham” significa “sole”, che in Copto è “rē”. In Romani “chhon” significa “luna”, che in Copto è “iooh”. In Romani “kasht” significa “legno”, che in Copto è “she”. In Romani “phral” significa “fratello”, che in Copto è “son”. In Romani “rat” significa “sangue”, che in Copto è “snof”. In Romani “me” significa “io”, che in Copto è “anok”. In Romani “oi” significa “egli” o “ella”, mentre in Copto “egli” è “ntof” e “ella” è “ntos”. È diversa a fonetica, è diversa la grammatica, sono diversi i vocaboli, i pronomi, i numerali: non esiste nulla in comune.

Un esempio dallo studio della matematica superiore

Esistono rapporti tra numeri che non danno esito definito, e per questo sono conosciuti col nome di “forme di indecisione”. Così ad esempio, se si divide una quantità tendente a zero per un’altra quantità tendente essa stessa a zero, non si ottiene alcun risultato determinabile eseguendo il suo limite. Allo stesso modo se si divide una quantità tendente a infinito per un’altra quantità tendente essa stessa a infinito.

Esiste uno strumento matematico noto come Teorema di De l’Hôpital, che permette in alcuni casi di risolvere queste forme di indecisione. Verificate certe condizioni sulle funzioni in questione, quando hanno forma di quoziente, detto teorema stabilisce che se si applica una procedura chiamata “derivazione” al numeratore e al denominatore del quoziente analizzato, si ottiene un numero che è eguale al quoziente del numeratore e del denominatore di partenza. Così, se con usando il Teorema di De l’Hôpital si ottiene un numero finito, ecco che la forma di indecisione può dirsi risolta.

Per queste sue caratteristiche in grado di trarre dall’imbarazzo il matematico in certe occasioni, ecco che il Teorema di De l’Hôpital ha acquisito fama immeritata ed è diventato tra gli studenti di Fisica e Matematica una specie di bacchetta magica, una panacea a loro detta in grado di risolvere ogni problema. Dall’uso si è giunti presto all’abuso: ecco studenti pronti ad utilizzare De l’Hôpital per risolvere i limiti di qualsiasi quoziente di funzioni, anche dove non esiste forma di indecisione – ed è dimostrato che in simili casi il numero fornito applicando tale teorema non è necessariamente quello corretto.

Riporto qui il caso di un professore ingegnoso che metteva alla prova gli studenti spingendoli ad usare al posto di De l’Hôpital uno strumento in apparenza difficile ma sicuro: lo sviluppo di Taylor di una funzione. Egli insegnava ad usare la testa, ma era visto come una specie di carnefice dagli studenti, che si sentivano defraudati della sicurezza offerta dal Dogma di De l’Hôpital. Il professore dava come problemi da risolvere quozienti di funzioni in cui usando De l’Hôpital si passava con gran fatica da una forma di indecisione ad un’altra, senza ottenere nulla. Così, andando in marasma, i candidati sbagliavano sempre nell’appicare gli sviluppi di Taylor, decomponendo le funzioni del problema in un numero troppo basso di addendi. Trascurando addendi importanti, in grado di svolgere una funzione determinante sull’approssimazione, ecco che fallivano miseramente, ottenendo numeri errati. Uno studente introverso, foruncoloso e schernito come “nerd”, ha capito – solo tra tutti – che se si scomponevano le funzioni in un gran numero di addendi, superiore ad esempio a dieci, non si sbagliava mai: si otteneva sempre il corretto limite, il numero richiesto.

Ecco come l’applicazione di un teorema in modo troppo disinvolto può traviare e condurre lontano dal Vero. 

Sono da preferire le teorie che spiegano più fatti

1) Immaginiamo di avere due teorie X e Y, in grado di spiegare quanto avviene nei due domìni A e B. La teoria X spiega ciò che avviene in A, la teoria Y ciò che avviene in B. La teoria X è più semplice della teoria Y, ma il dominio A è più piccolo del dominio B ed è in esso contenuto. Ossia, la teoria Y, più complessa di X, non solo spiega tutto ciò che ricade nel dominio A, ma anche altri fenomeni che X non può spiegare, perché B contiene A. La teoria Y, per quanto più complessa di X, deve essere preferita, perché rende conto di quanto accade nel dominio più vasto. Per poter applicare il Rasoio di Occam si deve avere parità di fattori.

2) Immaginiamo di avere n teorie a, b, c, …, che spiegano quanto avviene nei domini A, B, C,… Queste teorie sono, presa una per una, estremamente semplici, ma non hanno nulla in comune tra loro, in quanto pretendono di spiegare fatti diversi tra loro ricorrendo a cause dissimili. Immaginiamo ora di avere una teoria X, complessa ma capace di spiegare tutto ciò che avviene nei domini A, B, C, …, riducendo ogni fenomeno ivi studiato ad un’unica causa. Ecco che la teoria X, per quanto sia più complessa delle teorie a, b, c,…, deve essere ad esse preferita.

Non è possibile comprendere un sistema dall'interno

Hanno forse i materialisti una visuale privilegiata dell’Universo fisico? Guardano forse essi il mondo dall’esterno? No di certo. Usano forse essi parole di un altro Universo per spiegare le miserie di questo? No di certo. Non possono farlo. Quando si chiede loro cosa significhi “vedere”, essi possono soltanto rispondere che “vedere” equivale a “percepire la realtà circostante servendosi degli occhi, dei nervi ottici e dell’area del cervello preposta al senso della vista”. Spiegano cioè la “zuppa” definendola “pan bagnato”. La realtà del fenomeno che si chiede loro di descrivere non è minimamente spiegata. Possono essi spiegarla davvero ricorrendo a molte parole dove nella vita quotidiana se ne usa una sola? No di certo: la loro spiegazione fa riferimento – come ogni spiegazione concepibile – a mattoni fondamentali che sfuggono a ogni ulteriore analisi. Atomi di pensiero, dove la parola “atomo” deve essere intesa nella sua etimologia greca che rimanda al concetto di “indivisibile”.

Non è possibile dirimere una questione di cui si ignorano i fattori

Non è affatto lecito utilizzare il Rasoio di Occam allo scopo di risolvere questioni a cui la Scienza dei materialisti non è stata in grado di trovare una risposta. Il fatto che la risposta non sia stata trovata applicando il Metodo Scientifico significa che non sono state trovate prove irrefutabili capaci di decidere la questione. Così si deve ammettere che non si conoscono i fattori, e che pertanto il Rasoio non può essere applicato. Se non si è in grado di dare una definizione di ‘autocoscienza’, non si può pretendere che questa sia generata dal cervello e dalla sua neurochimica. Ora per quanto i materialisti si sforzino, non esiste nessuno tra loro che sia capace di definire l’oggetto delle questioni insolubili che affliggono la filosofia. Cos’è l’esistenza? Non essendo possibile dare una definizione dell’esistenza stando all’interno di ciò che esiste in questo universo, come potrà essere stabilito che non è necessaria una causa per l’universo stesso? Cos’è la percezione? Ogni possibile risposta si trova per necessità nell’ambito stesso della percezione. Pertanto, tutto ciò che i materialisti possono affermare a questo proposito pertiene alla sfera del metalinguaggio.

Il materialista e il televisore

Immaginiamo uno scienziato materialista in un remoto pianeta ove si trova un gigantesco televisore. Questo apparecchio ha uno schermo incastrato in una grande parete nera, tanto che nessuna sua componente interna è visibile a coloro che visitano il pianeta. Il televisore trasmette film e telegiornali di lontane galassie, ma il materialista non può comprendere quale sia la sorgente delle trasmissioni. Per noi, tutto è chiaro: il televisore è alimentato da corrente elettrica che viene prodotta in qualche recesso del pianeta e che alimenta l’apparecchio tramite una presa e dei cavi, in grado di far funzionare lo schermo. Senza questo flusso di corrente elettrica, il televisore non può funzionare. Allo stesso modo, esiste da qualche parte una sorgente di onde elettromagnetiche che il televisore riceve e decodifica, convertendole in immagini sul video e in parole che escono dal microfono. Senza la stazione che invia segnali video e audio, e senza un decodificatore, il televisore non potrebbe in alcun modo funzionare, seppur alimentato correttamente con il flusso di corrente elettrica: il video sarebbe nero e nessun suono intellegibile uscirebbe dall’altoparlante. Il materialista, non potendo indagare sull’origine della corrente elettrica che mantiene acceso il televisore, né tanto meno sul campo elettromagnetico oscillante che codifica immagini e parole, arriverebbe alla conclusione che l’apparecchio genera da sé la propria capacità di funzionare. In nome del Rasoio di Occam, ecco che i lontani generatori e la rete elettrica non sono necessari, ne viene dunque dichiarata l’inesistenza. Ecco che coloro che assemblano i programmi e li trasmettono nello spazio siderale sono mera fantasia, perché ammetterne l’esistenza è cosa troppo complicata. Dato però che il televisore esiste e che trasmette immagini e suoni la cui esistenza non può essere negata – in quanto oggetto dei sensi – ecco che il suoi funzionamento è dichiarato un prodotto del caso o della selezione naturale di elementi dapprima inerti che hanno acquisito un’inesplicabile animazione senza alcuna causa riconoscibile. Così se un uomo saggio spiega al materialista che antichi uomini hanno portato sulla desolata superficie del pianeta quella macchina, e che una civiltà di un lontano mondo madre tuttora trasmette film e documentari che vengono captati, ecco che il materialista insorge, pieno di furia, dichiarando ‘folle’ il saggio. I limitati sensi del materialista non scorgono le parti che costituiscono il televisore, e parimenti egli non ha nozione della civiltà che diffonde le trasmissioni, così dichiara entrambe le cose inesistenti – anche se esse sono dotate di una concreta esistenza a dispetto di ogni dissennato giudizio.

Le obiezioni dei nostri avversari materialisti a un simile argomento sono numerose. Essi dicono ad esempio che il cervello deve essere la sorgente prima dell’autocoscienza, perché se un suo qualsiasi componente subisce danno, la percezione stessa si altera o scompare del tutto, mutandosi la coscienza del paziente colpito in uno stato crepuscolare o in coma. A questa obiezione possiamo facilmente controbattere, affermando che il cervello è qualcosa che permette l’autocoscienza, che le rende possibile dimorare nel corpo, ma che non è la sua causa prima. Se infatti un componente di un televisore, di un computer o di altra simile macchina va in avaria, tale macchina smetterà di funzionare. Eppure è sotto gli occhi di tutti che tale macchina è solo un mezzo e non l’origine di quanto compie. I materialisti confondono l’utente di un televisore o di un computer con l’apparecchio da lui usato. Il fatto che un componente di un televisore o di un elaboratore si rompa non significa che la rete elettrica è venuta meno, né che a subire il danno sia stato l’utente stesso.

Corpi senz’anima e falsi uomini di Scienza

          [...]

Può il materialista enunciare in modo chiaro il problema che affligge la Scienza e si vuole risolvere in questa sede? No. Si vede soltanto totale ignoranza del problema stesso. Come si può pretendere di radere la complessità e di ridurre ogni cosa alla spiegazione più elementare se non si conoscono neanche le ipotesi? Abbiamo a che fare con falsi uomini di Scienza, che non seguono alcuna logica rigorosa e che pretendono di sentenziare senza neppure enunciare i termini del problema. Cos’è necessario? Cos’è superfluo? Essi dicono: “Un corpo senz’anima funziona altrettanto bene di un corpo dotato di anima, quindi non è necessario avere un’anima perché un corpo funzioni”. Se però si chiede loro di definire il concetto di anima e di spiegare come il funzionamento di un corpo avviene in concreto, non sono in grado di farlo. Noi vediamo che a un televisore o a un computer è necessaria corrente elettrica per funzionare, altrimenti abbiamo solo inutili carcasse metalliche e plastiche senza barlume di attività propria. Questo perché i televisori e i computer che utilizziamo sono stati costruiti dalla nostra civiltà e conosciamo a grandi linee i principi secondo cui funzionano. Come possiamo quindi, messi di fronte a macchinari costruiti e concepiti da altri, dichiarare con arroganza che non esiste la fonte del loro funzionamento, alimentandosi essi da sé ed essendo stati plasmati senza causa? Prima di far agire il Rasoio di Occam noi dobbiamo investigare ciò che compone l’oggetto del nostro studio e trovare una serie di possibili risposte ai nostri interrogativi – da vagliare con attenzione. I materialisti non agiscono in questo modo: usano uno pseudo-Rasoio di Occam con arroganza e fanatismo, come crociati in una guerra di religione, e reagiscono in modo furioso ad ogni critica. Questo loro modo di procedere si è ormai consolidato in una vera e propria medodologia stereotipa.

Enti complessi devono avere cause complesse

Qualcuno obietterà che non si può paragonare un essere umano a un televisore o a un computer, in quanto si tratta di realtà completamente dissimili che non funzionano allo stesso modo. Infatti le persone nascono dall’accoppiamento di altre persone di sessi diversi, perdendosi la genealogia nella notte dei tempi, mentre le macchine sono assemblate da artefici umani a partire da componenti fatti di materia inanimata. In altre parole, un essere vivente sarebbe il naturale prodotto delle leggi dell’Evoluzione, mentre il manufatto è artificiale e non avrebbe in Natura alcuna esistenza. Tuttavia si vede che un essere vivente, come ad esempio una persona umana, è infinitamente più complesso di un televisore o di un computer. Essendo i viventi tanto complessi, devono per necessità avere cause complesse, che non è facile determinare seguendo filosofia o metodo scientifico. Pertanto, dato che le cause sono complesse e che ci sfuggono i fattori che le definiscono, risulta provata una volta di più l’illegittimità dell’uso del Rasoio di Occam come strumento risolutore.

Non si può usare il Rasoio di Occam per negare che un evento abbia una causa

Molti nostri avversari, che hanno nome di materialisti, sostengono che la creazione dell’universo fisico abbia avuto luogo a partire da un evento simile in tutto a un’immensa deflagrazione, a cui attribuiscono il nome di Big Bang. Tuttavia, quando essi sono interrogati sulla natura esatta di tale evento cosmico, rispondono che non ha avuto causa alcuna, e che anzi non ha senso domandarsi cosa ci fosse prima di detta deflagrazione. Essi sostengono che dal Big Bang hanno avuto origine le leggi fisiche, oltre a tutti i parametri matematici e le caratteristiche geometriche che definiscono in mondo in cui viviamo, e che sono uguali in ogni luogo del Cosmo, dalla Terra fino ai quasar più remoti. Seguendo quanto Aristotele ci insegna, tutto ciò deve per necessità avere una causa. Eppure i materialisti, per non dover ammettere la necessità di un Artefice, sorprendentemente affermano che tutte queste leggi fisiche si sono formate senza alcuna necessità di una causa qualsiasi. Interrogati sull’argomento ed esortati a fornire informazioni più approfondite, essi sostengono che il Rasoio di Occam è proprio ciò che rade la necessità del Fattore del Cosmo, in quanto le leggi fisiche, nate da sé senza causa dal Big Bang, spiegherebbero altrettanto bene il funzionamento di ogni cosa, visibile ed invisibile. Purtuttavia, se una legge fisica si trova ad operare nel mondo sensibile, e il suo funzionamento esatto è provato dall’applicazione del Metodo Scientifico, come possiamo concepire che la sua esistenza non scaturisca da sorgente alcuna? Possiamo noi definire detta legge “priva di causa” solo perché il Metodo Scientifico stesso non ci consente ancora di esplorare il suo universo d’origine? I nostri organi di senso e i nostri strumenti di indagine non possono sondare ciò che vigeva prima del Big Bang, ma affermare che da questa impossibilità derivi l’inesistenza è pura e semplice stoltezza.

          [...]



Il testo presente in citazione è stato liberamente adattato dalle considerazioni di questo articolo, cui tributiamo i dovuti crediti.
https://perpendiculum.blogspot.com/2018/07/contro-l-del-rasoio-di-occam.html
 
Il blog ci tiene a ricordare: se i proprietari, malgrado l'attribuzione autoriale, abbiano a male e ritengano illegittimo l'uso che del loro lavoro è fatto in questa pagina, avvisino la redazione e sarà nostra premura rimuovere gli articoli suddetti. IndagineCattolica non ha intenzione di sfruttare opere altrui a proprio fine, ma solo la condivisione di articoli utili alla formazione dei lettori sull'argomento. 

Most popular

Welcome in IndagineCattolica!