Una delle principali assurdità nelle quali mi sono imbattuto, e che ho scoperto essere ben diffusa nella società odierna, è la convinzione che la nostra vita sia la migliore delle cose che ci possano mai capitare. Mi scuso: espressa così la frase farà saltare non pochi dei miei lettori dalla sedia. La vita è la migliore delle cose che ci possano mai capitare, ed io sono il primo ad esserne convinto! Esistere, ossia essere posto-in-essere, non ha eguali, e può ritenersi a buon diritto il principio e in qualche modo anche la causa del perchè ciascuno di noi prova qualcosa anziché nulla, sperimenta la contemplazione della meraviglia del mondo senza lasciare che questo sussista vuoto e silente.
C'è un ma. Un ma molto grande, un paradosso insolubile.
Come ben sapete, la posizione di chi scrive è certo orientata verso questo ottimismo esistenziale anche ed anzi in gran parte grazie alla sua inclinazione religiosa. Essa infatti mi fa “leggere” il reale e quanto contiene, le sue categorie e la sua complessa trama, secondo un disegno ben preciso ed intessuto di razionalità, senso e speranza.
Ma la maggior parte che ripete assieme a me questo, là fuori, spesso non è affatto mossa da alcuna considerazione in tal senso ed anzi abbraccia una visione materialistica ed atea dell'esistenza, tuttavia continua a ritenere che la vita umana abbia un certo grado di valore in sé (e se dicono il contrario, dimostrano con l'azione di non pensarla affatto così) e che le loro esistenze possano dunque essere animate da un senso, un fine.
Qui sorge il paradosso: fingendo ora di incarnare il pensiero di una qualunque di queste persone secolarizzate del nostro mondo, ed adottandone i principi e la lettura del mondo, la mia visione animata da una profonda fiducia nel valore della vita e del sue senso è definibile razionale?
Secondo il pensiero razional-materialista che oggi domina l'orizzonte culturale degli eventi, dovrebbe essere difficile rispondere affermativamente. Accade però il contrario.
Secondo l'uomo moderno che devo incarnare, ogni cosa è dominata dal cieco caso. Il furore degli eventi è regolato da un complesso e bilanciato gioco di equilibri, dove le leggi fisiche hanno la maggiore. La nascita dell'universo, la formazione di un ambiente che permetta la nascita e lo sviluppo della vita, la stessa nascita e sviluppo di forme di vita ed il loro organizzarsi sempre più complesso, la nascita di menti in grado di astrarre dalla stessa materia di cui sono costituite per parlare di universali e trascendere lo stesso spazio fisico...sono state fortunatissime, quanto forse irripetibili, casualità. Siamo qui: questo conta. A che serve pensare ad altro? La vita è preziosa proprio perchè è breve, non è eterna: godiamocela. Chi vuol esser lieto sia: di domani non c'è certezza.
Come figlio di processi deterministici, l'uomo stesso non può che essere soggetto dominato dalle leggi di natura. Un complesso di atomi un po' bizzarro, con un piede sull'orlo del nulla eterno. Non essendoci alcun dispositore esterno, cessa di essere ritenuta plausibile l'idea stessa della trascendenza: questa, assieme alla morale, non può che essere letta in due sensi. O come costrutto socialmente utile, ma non assolutizzabile, o come vantaggio evolutivo, utile nel progredire in una evoluzione puramente orizzontale e materiale. Sì, siamo macchine neurali, molto complesse, incredibilmente complesse. Sì, il nostro libero arbitrio è un'illusione: le nostre scelte sono figlie di una complessa quanto determinata dialettica tra la nostra psiche e l'ambiente che ci circonda. I nostri sentimenti sono segnali chimici, nulla di più: però, accidenti se brucia dannatamente quell'amore perso nel passato! Sì, occupiamo un ruolo insignificante nella vastità del tutto, quindi siamo in qualche modo insignificanti. Là fuori c'è il nulla, la nausea cosmica ed il vuoto che ha in pegno la nostra anima. Ovviamente è un poetismo: di atomi si parla. Il nostro ricordo? Un'ombra nel nulla eterno. Però l'uomo è capace di cose stupende, progetti meravigliosi! Certo, ma sono il chiaro frutto della sua evoluzione, ed il suo desiderio di infinito non è che un'illusione.
MA
la vita è bella, e c'è posto per l'ottimismo! Io ci vedo un senso, una direzione...io l'ho decisa! E quindi ho anche un valore. Divertiamoci, e viviamo appieno, respirando a pieni polmoni della vita che ci è stata consegnata dal caso. Potevamo non nascere, ma ora siamo qui!
Spero di aver reso con un poco di maliziosa ironia la questione.
Io invece la vedo come segue.
La vita non può essere ritenuta preziosa a partire dalla sua stessa breve durata. Non basta che un qualcosa abbia vita breve perchè valga. Di fatto un tale assunto si poggia su una convinzione simile: ciò che è effimero e perituro ha un valore; ciò che è eterno ed incorruttibile non ha valore. Comprendiamo come una simile constatazione non sia solamente contro-intuitiva, ma che sfiori persino l'assurdo. Chi tra di noi, se potesse scegliere, opterebbe per vivere solamente pochi minuti quando potrebbe vivere anni, decenni interi? O chi preferirebbe stringere tra le mani un fiore, una pietra preziosa, che si corrompa dopo un istante di contemplazione? Non a caso, a proposito si parla di caducità, di cose periture, vane. Tuttavia l'uomo, spesso tende a comprendere il valore delle cose che posside solo quando le perde, e conosce la loro non-eternità. Ciò porta a condensare questa esperienza umanissima sulle considerazioni circa il valore della vita, ma non le rende vere né oggettive. Ci si dice: “ho imparato tardi il valore di ciò che ho perso solo quando l'ho perso. Non posso più permettermi di sbagliare, e devo stimare tanto più valida un'esperienza quanto più so che essa finirà presto, per non dover rimpiangere il non averla saputa apprezzare...”
Ma mai avremmo potuto constatare che quel dato oggetto avesse un valore, solo grazie al nostro averlo perduto: l'oggetto in sé deve aver avuto un valore a prescindere da questo. Il valore delle cose non è legato al loro perderle, ma alla conoscenza che facciamo di queste. Non a caso, se rimpiango di aver perso una persona cara, la rimpiango perchè riconosco, a posteriori, il valore che di lei non avevo saputo conoscere in precedenza. Ciò significa che l'essere umano può riconoscere il valore di una persona, un oggeto, della vita...senza dover per forza passare attraverso il doloroso cammino del perderli: può farlo attraverso la luce della ragione, cercando di non indurire il cuore. L'uomo può intraprendere questa saggia via o limitarsi a sbagliare e, attraverso l'errore, accumulare l'esperienza di vita per evitare futuri errori.
Un qualcosa, perchè possieda un valore oggettivo, deve possedere una finalità oggettiva. Il diamante è prezioso perchè trova ampio uso nella costruzione di componenti di precisione nell'industria chirurgica. Ma senza un fine oggettivo verso il quale l'uomo sia chiamato, cessa di esistere qualunque valore a lui intrinseco.
Cade il senso stesso della domanda: “c'è un senso?”
Essa può essere rivolta solo ad un ascoltatore, e non di certo ad un universo incapace di trascendenza.
La vita dell'uomo non vale più della neve che cade, del pesce che boccheggia in uno stagno o di una supernova in collasso. Tutte queste cose sono accomunate da un solo fatto: avvengono, esistono. Ma non hanno un fine, se non quello di avvenire. Non hanno uno scopo, se non quello di colmare il vuoto che la loro non-presenza lascerebbe. Per caso, tutto esiste. Per caso, tutto potrebbe non esistere. Ma sarebbe un'altra storia e noi non potremmo neppure ponderarla, non esistendo.
La vita può avere un valore oggettivo solo se è mossa da un fine oggettivo. Altrimenti, per sopperire a questa mancanza di senso, occorre arrangiarsi da soli, tappare i buchi.
“La mia vita ha il senso di fare tanti soldi e spassarmela”
“La mia di godermi i piaceri...ricercare la saggezza...salvare vite...”
Ma nessuno di questi scopi è il Senso della vita. La loro pluralità dimostra proprio questo: che, in assenza di uno scopo preciso, ciascuno ha cercato di adattare la propria vita a quello che più riteneva appetibile, calzante, ispirante. Per carità, è un bene che ciascuno di noi imposti la propria vita attraverso questi micro-scopi. Ma se essi non sono sostenuti da un macro-senso della vita, allora la loro utilità non sta tanto nel fornire uno scopo oggettivamente valido all'esistenza quando quello di farci convivere meno angosciosamente con le premesse del nostro pensare materialistico.
Là fuori, direbbe Sartre assieme a diversi esistenzialisti novecenteschi, non c'è che l'indifferenza universale. Tout court.
Ma l'uomo deve arrangiarsi, darsi una direzione che lo distragga dall'intrinseco non-senso della vita in prospettiva materialistca.
Ma se anche facesse così, sarebbe razionale affermare che la vita, di per sé -se proprio non ha un senso ed un valore intrinseci- è una cosa positiva, gradevole, un numero fortunato al lotto?
Pare di no.
Tirando le somme, infatti, il responso è abbastanza deludente. Premesso che, nell'ottica determinista ed ateo, la vita si riduce ad un mero ciclo biologico privo di qualunque appiglio metafisico (non ci sarà alcuna consolazione in una vita dopo la morte, le preghiere rimangono inascoltate, le religioni sono un costrutto sociale per allietare la nostra tensione all'infinito [che il caso ci avrebbe fornito per un amaro scherzo del destino] etc) occorre valutare quanto gli aspetti materiali della vita siano soddisfacenti o meno.
Partiamo dai piani inferiori e più basilari di ciò che la vita offre ad un buon materialista.
Possiamo strafogarci di buon cibo ed inebriarci di vino, circondarci di ogni sorta di piacere e frastornarci per notti intere con ciò che maggiormente sembra dilettarci. E' un buon inizio (sic!)...ed anche la fine. Schopenauer bene diceva, a tal proposito, quando paragonava la vita ad un pendolo oscillante tra la noia ed il dolore: nel mezzo, il piacere. Un fugace istante raggiunto con fatica, ma poi subito perduto, perchè transeunte. Ed ecco che sopraggiunge il dolore della perdita, e la noia dell'attesa di qualche altro piacere da strappare alla vita. Godere di questi piaceri, poi, non è affatto una certezza, e neppure una garanzia. Non è una certezza, perchè spesso per poterne godere si abbisogna della salute, di un buon grado di pecunia, di ricchezza. Che deve dire un malato, povero, incapace di accogliere dalla vita questi pochi piaceri che offre? Di certo per lui la vita non è un affare, direbbe il materialista coerentemente col suo pensiero. La vita è un affare quando possiamo godercela appieno, spingere l'acceleratore al massimo. Non è neppure garanzia di felicità: piuttosto di nausea e disillusione. Si raggiunge qualcosa che si crede ci avrebbe saziato, ma essa si rivela ben poca cosa di fronte alla fame interiore. Quel desiderio di piacere infinito (Leopardi) -o forse-: beatitudine.
C'è però chi contesta: un materialista non deve per forza abbruttirsi alla ricerca di questo spasso gretto e animalesco. Un uomo può trarre piacere da molte altre cose. Dedicarsi, ad esempio, ad un passatempo intellettuale. Scrivere, comporre musica. Dipingere, scolpire. Questi spiriti elevati, però, dovrebbero a maggior ragione sentire su di loro tutto il tragico peso della condizione umana. Dovrebbero, più degli altri, saper sondare le ombre dell'esistenza per concludere che l'uomo è un essere disperato, un titano eroico e caduco, preda di un fato amaro e crudele. Come nella mitologia greca, l'uomo combatte con le forze avverse che lo respingono al fango della morte e della dissoluzione. L'anelito di morte del caso lo sospende sul mare dell'incertezza, ma l'uomo, così umano e così nobile, guarda al cielo sperando di ottenerne risposta, riconoscendo che per lui la morte significherebbe un inutile spreco di vita, energia, intelletto. Riconosce l'assurdo di una vita plasmata dal caso, che l'ha tirato fuori dal nulla giusto per porsi domande senza risposta e morire nell'angoscia.
Il pastore errante guarda le sue greggi e le invidia, le invidia perchè esse non hanno un peso nel cuore come ha lui, diceva Leopardi. E cos'è questo, se non bisogno di Dio? Cos'è, se non rivolta contro l'oppressione del caso, del non-senso, dell'irrazionale?
Tirando
le somme, senza una prospettiva ulteriore che dia un senso ed un
valore oggettivi all'esistenza, la vita non è altro che dolore e
noia, intervallata da brevi momenti di piacere e incoscienza. Ma,
presa di petto, è una situazione tragica. Senza contare il problema
del male. Il cristiano ammette l'esistenza del male, ma ammette anche
la sua transitorietà e, appellandosi a Cristo, spera: non vede il male come un inutile sfogo del destino, ma come via di redenzione. Un
materialista può ammettere l'esistenza del male, ed essere realista,
ma vivere come non ci fosse per non disperare oppure fingere di non
vederlo, per vivere in pace: in entrambi i casi il male non è razionalmente spiegabile. Accade, e questo è tutto. Accade, e l'uomo ha la sfortuna di soffrirlo più di qualunque altro essere che lo accompagna in questa vita.
Asserire che la vita è bella ed ha un grande valore è razionale solamente prescindendo dalla visione atea e materialista. Difatti, non è raro trovare chi adotta questa visione disperarsi allorquando le condizioni materiali della sua vita cambiano; quando la salute e la ricchezza vengono meno e la parvenza di certezza data dai piaceri coi quali la bontà della vita era giustificata si sgretola.
Non c'è razionalità -la stessa contestata ai credenti dai non-credenti- che tenga innanzi questa asserzione, solo, un grande, umanissimo desiderio di dare una parvenza di significato, di indirizzo e scopo a ciò che valore oggettivo, razionalmente, non potrebbe mai avere.
La Redazione
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