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Timor Dissolvi

 

Diceva un grand'uomo spinto da viva fede, uno dei nostri padri, tempo orsono: 

Coarctor autem e duobus: desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo, multo magis melius: permanere autem in carne, necessarium propter vos...” [1]

Non fu sua esclusiva l'uso di un simile linguaggio: è difatti entrato nell'uso corrente, attraverso l'applicazione che ne fecero i grandi mistici cristiani, il termine cupio dissolvi. Tradurlo è difficile, seppure non impossibile. Con quel bel modo di giocare con le parole proprio del latino, questa espressione infatti rimanda ad un desiderio vivo e profondo di dissolversi, di vedersi disciolto come sale in un bicchiere d'acqua ed annullato dei propri personali desideri e persino della propria vita.

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Nell'antichità, un'espressione simile non poteva che essere associata alla disperazione di un vinto; quest'affermazione avrebbe accompagnato senza dubbio i lamenti di un uomo sconfitto, senza più forza per combattere e senza più speranza per ritentare. L'ultima volontà del sopraffatto appare allora un atto di vergogna simile al desiderio di essere distrutto lentamente, senza fretta, annullato nella propria incapacità.

Ben diversa accezione acquisisce questa espressione in ambito cristiano, e particolarmente con i grandi santi e mistici della nostra fede. La citazione in apertura -dalla quale senza dubbio il cupio dissolvi ha ricevuto grande popolarità e diffusione- appartiene infatti allo stesso San Paolo, l'apostolo delle genti, che tutto potremmo considerare ma non certo uno sconfitto.

Egli fu vinto, certo, ma vinto da Cristo del quale seppe riconoscere la signoria e per il quale giunse a dire di preferire d'esser “sciolto dal corpo” per sperimentare la vita dei redenti piuttosto che rimanere in vita, a compiere il suo magistero di evangelizzazione. Paolo certo scelse il secondo, mosso da viva carità e dal desiderio di far conoscere a quanti più uomini la lieta novella del Vangelo; certo neppure dimenticò mai la propria destinazione finale, tanto preziosa ed ambita, per la quale potè infine sospirare: 

Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione...”

Desiderio di vedersi dissolvere per Cristo ed in Cristo, questo era ed è il significato più profondo dell'anelito paolino e caro alla mistica cristiana: il grido dell'arreso, sì, ma dell'arreso innanzi al Mistero fattosi carne; il gemito del vinto, certo, ma del vinto dalla potenza di Dio. Innanzi a queste la nostra vita perde ogni significato e valore, tanta la sua piccolezza ma, innanzi a tali prodigi d'amore divino verso il nulla umano, questa si eleva ancor più in tutta la sua fulgida dignità.

Il più grande desiderio dei santi fu proprio questo: abbandonare le spoglie mortali, varcare quella soglia tanto attesa, vedere il giorno caro e lasciarsi alle spalle le insipienze del mondo. Annullare sé stessi per nascere in Cristo, morire nella carne per nascere dalla sorgente della vita stessa.

E non dovremmo ritenere certe affermazioni consone solo ad una certa novellistica monastica e conventuale, quasi che non ci riguardi: ogni cristiano è chiamato a farsi unico assieme a Cristo, a fondere l'intero e più profondo proprio essere con l'Essere sommo e perfetto.

A tal proposito, già nel secondo secolo, scriveva un'anonimo autore nell'Epistola a Diogneto:

I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere...Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile...Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita [...]”

Se ne deduce come l'annichilire sé stessi persista e sussista unicamente in virtù -e quale mezzo- di far posto a Dio e, così avendo imparato a morire, vivere per davvero, accrescersi più di quanto mai si riesca a fare senza questa “morte dell'io”, tanto autentica quanto indispensabile per la vera ascesi. In questo procedimento ormai non sussiste più da tempo il timor dissolvi, la paura della morte: essa viene vinta da un costante processo di maturazione spirituale e fede.

Eppure, proprio del timor dissolvi vorrei parlare: un'espressione artificiale, un autentico contrario della cupio, del desiderio d'esser dissolto.

Il timore della dissoluzione è la paura propria ad una società che teme la morte perchè ha perso la strada, il senso della vita stessa. Non sussiste infatti paura della morte nell'uomo che ritiene la morte come la porta attraverso la quale è necessario passare per ritrovare Dio.

Paradossalmente, la paura della morte è ancora più presente -seppure mascherata, repressa, zittita- nella società odierna, dominata dall'ateismo nichilista e materialista, piuttosto che nelle società antiche. Laddove un tempo -ed anche oggi, per noi- la morte non era che una soglia, oggi è semplicemente la fine. Un muro inesorabile, alto ed insidioso, insuperabile, contro il quale rovinano e si disgregano i nostri corpi, sospinti dalle mareggiate del tempo, verso la dissoluzione finale.

Una dissoluzione senza via d'uscita, senza senso, fine a sé stessa. Una dissoluzione non necessaria, non utile ma solo che, per uno strano caso, si verifica. L'uomo è ridotto a puro detrito sulla spiaggia dell'Essere che, essendo stato per un momento, subito viene richiamato dal non-essere.

Appaiono allora anacronistiche (!) per la modernità le considerazioni di San Paolo che non solo non fugge, bensì cerca di propria volontà l'unione con Dio, anche quando questa significa dover passare attraverso la morte. Oggi, la morte si fugge e, paradossalmente, la morte ha in pegno la stessa società priva di senso, valori, fede. Quel limite invalicabile che essa è non solo si teme, ma anche si evita di nominarlo come per allontanarne la noi l'ombra spettrale: nulla di più lontano dalla spiritualità cristiana e dall'esempio dei martiri, che spesso seppero trovare nella morte una grande consolazione, uno scorcio al Mistero che li attendeva.

E così, se in contesto pagano il cupio dissolvi era proprio dell'eroe sconfitto e schiantato dal fato avverso e in quello cristiano era indice d'impazienza di martiri e santi “arresi” a Dio in attesa della vita eterna, oggi registriamo una regressione di significato, un involuzione: “desidero esser dissolto” non è più il lamento d'eroi o santi o martiri, ma dell'uomo del moderno evo, tout court. Se l'eroe antico, seppur in contesto pagano, invocava la propria distruzione, lo faceva tenendo bene a mente gli ideali che non aveva saputo incarnare, l'onore che non aveva saputo conservare o i cari, la patria, che non era stato in grado di difendere. L'uomo moderno, né eroe né vincente, perde contro sé stesso e la visione nichilista che abbraccia, la visione della disperazione. Perde a causa propria. Così facendo, invoca la distruzione del proprio essere nella banalità, nell'odio verso la vita che crede priva di senso ed il dolore, nell'insipienza del nulla.

Morire, invocare la morte, diventa causa e fine di sé stesso.

E se il santo elevava in cielo questo controverso grido: “desidero esser dissolto!”, certo lo diceva per poi aggiungere: “perchè il mio essere, libero di questo fardello mortale, possa congiungersi a Te, o Dio, e possa in eterno lodarTi”. Questo, si direbbe, il contrario d'oggi. Il moderno eroe laico ha imparato che non c'è nessuno, “al di là”: appare allora inutile qualunque invocazione, qualunque preghiera, prece, supplica. Egli si appiglia allora ai valori che guidarono la sua vita? Può farlo, ma ben ricordando che una coerente visione nichilista non ammette l'esistenza di valori eterni, oggettivi. In poche parole, per questo novello eroe moderno, non resta che disperarsi ed invocare, appunto, una dissoluzione che possa dargli il silenzio dei sensi, del pensiero, della coscienza.

Se il salto del martire era un coraggioso salto nel senso, nella vita, in Dio, oggi il salto del moderno è il salto nel nulla, nel mistero (totalmente materiale e non trascendente) dell'esistenza.

Come sarebbe infatti lottare per una vita intera per valori ritenuti umani e giusti, per poi, nei momenti di lucidità, realizzare che non sono eterni, che tra una, due generazioni verranno uomini che chiameranno giusto ciò che per me era sbagliato?

Laddove l'eroe antico si faceva nulla, si annichiliva innanzi ai valori che non aveva saputo servire o al fato ostile e laddove il santo si annullava per aprirsi a Dio, l'uomo moderno si annulla per il semplice fatto di annullarsi. Egli concepisce come implausibile l'idea di Dio, logicamente conseguente l'impossibilità di leggi morali eterne e di uno scopo ed un senso propri alla vita.

D'altrode è proprio questo il senso del nichilismo: “per nichilismo s’intende – specie oggi, in un’epoca in cui esso pare contrassegnare l’intera civiltà occidentale e talora essere il suo destino – [...]: un pensiero che nega l’esistenza di qualsiasi valore e del principio stesso di valore, proclamando che la vita non si fonda su nulla e non ha senso cercarne il significato.” [3]

Timor dissolvi allora -il timore della morte, del vuoto, del nulla- è, paradossalmente e come detto, il prodotto di una società materialistica fondata principalmente sull'accettata (spesso fin troppo a cuor leggero, direi incoscientemente) idea che l'universo sia indifferente all'uomo, che sia privo di valori morali oggettivi e della stessa presenza di Dio.

E, effettivamente, di fede moderna si tratta: non una risposta risolutiva alle grandi domande della vita -sul senso, su Dio, sulla morale...- ma una grande domanda, un punto interrogativo, il dubbio di una società che ha rigettato Dio ma alla quale, quando guarda al futuro, è giustamente precluso qualunque disegno intelligibile e sensato (prerogative del mondo concepito e governato dall'Intelligenza di Dio) per l'umanità così svestita, nuda e miserevole.

C'è poi chi sostiene, tentando di convivere con questa fede e le sue conseguenze:

“Nichilismo è sentire che al mondo non c’è nulla per cui valga la pena essere pessimisti.” [4]

E come metterlo in dubbio? 

Certo è vero perchè non c'è neppure nulla per cui essere ottimisti. In sostanza, ogni scelta è indifferente. Ogni emozione, una vacua voce persa nella vastità del nulla. Nessuno risponde, tanto vale non chiedere. Ma l'uomo, non è forse nato per chiedere? Non conserva forse in sé quei semi insopprimibili di una natura di esploratore, costantemente sulle tracce della verità? Che siano lecita convinzione o fatua leggerezza ad aver mosso le considerazioni dei nichilisti, certo entrambe non sono metro di validità tale da imporre all'uomo ed al suo spirito, quasi con un solenne e brusco divieto, la ricerca del vero, del senso, dell'essere in quanto esistente; neppure sono licenza d'osservare dall'alto in basso quei pochi che han mantenuto la fede e la ricerca, quali tardi epigoni restii ad abbandonare convinzioni ormai accertate per errate.

La Redazione


[1] San Paolo nella Lettera ai Filippesi, 1, 23-24: “Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne.”

[2] 2 Timoteo 4; 7-9

[3] Claudio Magris

[4] Giovanni Soriano

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